La dignità della morte

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Il caso di Lucio Magri ripropone il discusso tema del suicidio assistito

Malato di depressione, il fondatore della sinistra radicale è andato in Svizzera per spegnersi con la “dolce morte”, aiutato dal medico suo amico che lo ha seguito in questa decisione presa all’insegna di una lucida coscienza personale.

Di  Rita Coruzzi

È di questi giorni la notizia della morte di Lucio Magri, 79 anni, fondatore del Manifesto, avvenuta in Svizzera dove si praticano legalmente i suicidi assistiti anche per i non residenti. Nel Paese elvetico, infatti, in cui la pratica dell’eutanasia era già concessa dal 1941, è stata approvata recentemente la decisione di dare questo tipo di “assistenza” anche ai non residenti. Un’associazione dal nome ambiguo di “Dignitas” offre questo “servizio”, usufruito nel 2010 da ben 1400 persone, di cui 19 italiani, saliti a 30 nel 2011.

Magri, che soffriva di una forte depressione provocata dalla scomparsa della moglie Mara, si era già recato altre volte in Svizzera con l’intenzione di chiedere il suicidio assistito, ma era sempre ritornato. Questa volta, invece, la sua decisione è stata irrevocabile: un’ultima telefonata agli amici di sempre che attendevano a casa, e poi il silenzio.

Così ha scelto di andarsene, con un gesto che è stato definito dai suoi sostenitori “dissacrante e dirompente da grande laico”: solo, lontano da casa, senza gli affetti più cari, rimasti a casa ad attendere la notizia. Peppino Englaro ha commentato con queste parole: «Nessuno può entrare nella coscienza di una qualsiasi persona. Questo signore evidentemente ha esercitato il primato della sua coscienza. È tutto lì. E tutto si riassume in queste parole, nel primato della coscienza personale, che non può essere messo in discussione da nessuno sulla faccia della Terra.»

È vero, nessuno si può permettere di giudicare, però io personalmente senza giudicarlo, provo molta pena e molta tristezza per Magri. Me lo immagino in una stanzetta asettica di ospedale, spoglia, anonima, sdraiato su un lettino bianco qualsiasi, e addormentarsi così, solo e lontano da tutti. Non è la morte che vorrei. Forse ha esercitato il primato della coscienza personale, ma questa morte è più triste, più straziante di qualsiasi altro modo in cui la vita può terminare.

Il pensiero di questo modello liberista, per cui è moralmente lecito tutto ciò che l’uomo compie liberamente, è solo una grande illusione di libertà, e toglie all’uomo quella vera, quella di vivere con dignità anche la morte. Fino ad alcuni decenni fa le persone si spegnevano in casa, nel loro letto, attorniati dall’affetto dei propri cari. Era un modo più dignitoso di morire. Non è questo un giudizio moralista, è un fatto. Perciò sono triste pensando alla morte di Magri, perché nessuno dovrebbe morire così. E allora la questione della fine della vita diventa non solo un tema, ma il tema fondamentale della nostra esistenza, perché investe la radice del rapporto con noi stessi e con il mondo esterno. Perché la morte non è un momento staccato, ma fa parte della vita, e se la morte non è dignitosa, non lo è nemmeno la vita. Diceva Heidegger che “la vita diventa autentica se ci si pone il problema della morte”, ed è vero, non si può costruire una società pervasa dal tabù della sofferenza e della morte: bisogna morire da soli, altrimenti gli altri soffrono; bisogna morire come si vuole, per esercitare la propria libertà; bisogna morire lontano da casa perché la morte è una cosa brutta da lasciare fuori.  Questo non è un modo dignitoso di morire, chiediamoci allora se non lo è altrettanto quello di vivere secondo una tale concezione.

A partire dal XX secolo, nella nostra società la morte viene nascosta, diviene un tabù. Non è accettata né inserita nella vita, e si cerca di ridurla al potere dell’uomo. La modernità ha cercato di annientare la visione della morte del mondo antico trasformandola da evento naturale ad evento programmabile, e configurando la morte stessa come un assurdo, qualcosa da negare e da dominare. Così con la scusa della pietà, e addirittura della dignità, il pensiero laico e lo scientismo razionalista stanno cercando di liberarsi di tutti i pesi della società: anziani, malati, disabili, persone la cui vita non sarebbe dignitosa solo perché hanno capacità ridotte. E in tal modo non solo questi liberi pensatori compiono crimini e li legalizzano, ma si assolvono automaticamente perché sarebbero dettati da pietà, da amore per coloro che non vivono una vita dignitosa.

Bisogna dare un nuovo volto alla parola dignità. Essere malati non significa non avere dignità, e non è amore uccidere la persona disabile per non farla soffrire. Purtroppo questo è quello che vogliono farci credere, ma non è così. La vita vale sempre la pena di essere vissuta, anche se si è ammalati, disabili, anziani. E altrettanto la morte: vale la pena di accettarla quale è, un momento della vita da affrontare con dignità e coraggio quando arriva. Per questo vita e morte superano i confini della riflessione bioetica, che pure è così importante: essi sono inviolabili perché l’uomo ha il diritto alla dignità, perché l’uomo è sempre il fine e mai il mezzo, perché l’esistenza umana non è frutto del caso, perché vita e morte fanno parte integrante della sostanza dell’uomo.

Perciò, caro Magri, ora non sei più tra noi, ma io sono certa ci puoi vedere anche se tu non credevi nell’aldilà, e così dal tuo luogo di riposo potrai renderti conto di tutto, della verità della vita e della morte, e potrai forse affermare che la dignità non è poter scegliere di morire, ma voler scegliere di vivere.

Rita Coruzzi

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