Ravensbrück – Ho paura anche dei sogni

27 GENNAIO: GIORNATA DELLA MEMORIA

In un libro di Wanda Poltawska, i ricordi di cinque terribili anni trascorsi nel lager di Ravensbruck

Di Renzo Allegri

Come ogni anno, il 27 gennaio ricorre la “Giornata della memoria” per ricordare le vittime dell’Olocausto, cioè le orrende barbarie naziste perpetrate sul popolo ebraico tra il 1933 e il 1945.

1Non va, però, dimenticato che, insieme a milioni di ebrei, furono deportati, torturati e uccisi anche molti cristiani: sacerdoti, religiosi, suore e laici. Nel 1940, nel lager di Dachau erano rinchiusi 2720 ministri di culto, e la stragrande maggioranza, 2.579, pari al 94.88%, erano cattolici. E con essi, molti cattolici laici.

In genere, ad ogni anniversario della “Giornata della memoria”, i media giustamente dedicano ampio spazio a ricordare milioni di vittime ebraiche, trascurando però completamente tutti gli altri. Voglio perciò qui ricordare la storia di una giovane donna cattolica polacca, che sopravvisse a cinque anni di torture in uno dei lager più famigerati.

Si tratta di Wanda Poltawska, medico e psichiatra, che oggi ha 97 anni.

E’ un personaggio molto noto negli ambienti cattolici, perché fu amica e stretta collaboratrice di Papa Giovanni Paolo II.

Nel 1940, Wanda Poltawska aveva 19 anni. Viveva a Cracovia, frequentava, come tanti altri suoi coetanei, i circoli degli studenti cattolici.

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Di essi faceva parte anche Karol Wojtyla, allora brillante studente universitario, attore, poeta, regista. Quando i nazisti invasero la Polonia, quei giovani affiancarono i movimenti della resistenza partigiana per difendere la patria.

E Wanda, con molte altre coetanee, venne arrestata e deportata a Ravensbrück, il più grande campo di concentramento femminile della Germania nazista.

Tornò a casa al termine della guerra. Era una larva umana. Fisicamente, ma soprattutto psicologicamente distrutta. Non voleva più vivere. Per liberarsi dagli incubi della prigionia che la perseguitavano giorno e notte, scrisse un libro di memorie.

Ma non volle pubblicarlo. Solo nel 1980, un’amica riuscì a convincerla a farlo. Ed è un documento terrificante.

Il libro si intitola “Ravensbrück. Ho paura anche dei sogni.. Wanda racconta il suo calvario e riesce a farlo non pensando solo a se stessa, ma con una commovente partecipazione alle sofferenze delle altre sue compagne di sventura.

<<Una sera>>, scrive Wanda Poltawska all’inizio del libro, <<studiavo a casa quando all’ingresso una voce maschile, in polacco, risuonò strana e aggressiva: “Chi di voi è Wanda?” E così cominciò la mia disavventura. Mi alzai, uscii… e sono tornata solo adesso, dopo quasi cinque anni di campo di concentramento>>.

4La ragazza fu portata al comando della Gestapo di Cracovia e sottoposta a un interrogatorio che durò alcuni giorni. Venne picchiata, violente¬mente, con pugni in faccia, nello stomaco, minacciata con una rivoltella. Ma non si impaurì mai. Scrisse nel libro: <<Dall’interrogatorio uscii con la coscienza pulita, perché non dissi una parola in più di quanto realmente volessi, nessuno per colpa mia in alcun modo è stato accusato>>.

Venne rinchiusa in una cella zeppa di persone. <<Nella prigione c’erano pidocchi, pulci, sporcizia, non c’era l’acqua ed era scoppiato il tifo. Di notte, a volte, all’improvviso, accendevano le luci facendoci stare sull’attenti. Cominciavano a chiamare alcune di noi. Dopo, in cella, non si dormiva più, si pregava per quelle che erano andate via. E trascorso un po’ di tempo, sotto le nostre finestre sentivamo i colpi d’arma da fuoco dell’esecuzione>>.

Dopo quasi sette mesi, le prigioniere vennero caricate su un treno merci e inviate in Germania, nel famigerato lager di Ravensbruck, dove i medici tedeschi facevano esperimenti su cavie umane. <<Eravamo destinate a morire. Le nostre sorveglianti ci picchiavano a sangue. Fummo spogliate nude, ci diedero dei vestiti a righe, ci raparono a zero, volevano di¬struggere la nostra personalità>>.

<<Dall’alba al tramonto, le nostre giornate erano impegnate in lavori molto pesanti. Era in costruzione un grande edificio a vari piani. Dovevamo portare sulle spalle sacchi di cemento e di sabbia da 80 chili salendo scale strette fino al soffitto. Mi sentivo morire ma non potevo far cadere quel peso perché dietro di me c’era un’altra prigioniera e l’avrei uccisa. Durante il lavoro, avevamo accanto le sorveglianti con terribili cani che ringhiavano minacciosi appena una di noi si riposava un poco. Le mani sanguinavano. Al mattino la sabbia era bagnata. Durante il giorno si asciugava con il vento, si alzava, entrava negli occhi, nella bocca, nelle orecchie>>.

5Un tormento mortale era costituito dal freddo. <<Dove dormivamo pendevano dal soffitto i ghiaccioli. Sulle nostre coperte c’era la brina e la sorvegliante ci ordinava sistematicamente che aprissimo le finestre dei due lati del dormitorio per punirci con le correnti d’aria.

<<Nelle baracche dove andavamo a lavorare era, invece, molto caldo. La baracca era superaffollata e sudavamo. Indossavamo vestiti leggeri, con le maniche corte. Il mio turno terminava alle cinque del mattino, ci sbattevano fuori, tutte sudate e con gli stessi vestiti leggeri rimanevamo ore e ore al gelo.

<<Tornando nel capannone dove si dormiva, avevamo le mani gonfie, le ossa rotte. Ci buttavamo sulle brande e dopo un’ora suonava la sirena e dovevamo alzarci per gli appelli. Ritornavamo nel dormitorio e dopo un’altra ora ancora la sirena per l’appello. Non si riusciva a chiudere occhio. La stanchezza era enorme. A volte, durante gli appelli si dormiva in piedi, a occhi aperti, e qualcuna cadeva a terra tramortita e veniva presa a bastonate. La fame era più forte del desiderio di dormire. Eravamo magre come scheletri. Neanche la vista delle donne nude, in coda per il bagno, terribilmente magre, causava più disgusto. Guardavamo con indifferenza la nostra magrezza e quella delle altre, così come la perdita dei seni e la morte. Per la fame eravamo diventate ladre, ci rubavamo un tozzo di pane, litigavamo per poche briciole>>.

Dopo mesi, un gruppo di ragazze venne trasferito nel padiglione dell’infermeria, tra esse anche Wanda. Iniziò il calvario degli esperimenti medici. <<Un’infermiera depilò le nostre gambe, poi ci fece delle iniezioni che ci fecero perdere la coscienza e quando ci svegliammo avevamo le gambe ingessate. Che cosa è accaduto? Non lo sapevamo. Ci riportarono nel dormitorio su una sedia a rotelle. Ci misero a letto e quando, nel corso della notte, terminò l’effetto del potente sonnifero, cominciarono dolori lancinanti>>.

3Quelle ragazze diventarono delle cavie umane per atroci esperimenti medici che durarono anni. Wanda nel suo racconto si dilunga, con dettagli e particolari agghiaccianti. Gli interventi chirurgici alle gambe si succedettero a periodi fissi. Le ferite praticate venivano trattate con medicinali particolari che producevano infezioni, cancrene. In quello stato le vittime erano abbandonate sole nel dormitorio, senza alcuna assistenza. Wanda, pur non riuscendo a reggersi in piedi, si lasciava cadere dal letto e, aggrappandosi alle brande delle compagne, raggiungeva quelle più sofferenti per dare loro un po’ di conforto, bagnava i visi bruciati dalla febbre con stracci inumiditi, confortava chi stava agonizzando. Di giorno arrivavano i medici che osservavano le ferite e ordinavano altri esperimenti. Le povere cavie umane erano sottoposte ad altre orribili mutilazioni, asportazioni di pezzi di ossa, iniezioni di batteri nelle ferite.

Un calvario spaventoso e interminabile. <<Ogni tanto una ragazza moriva>>, scrive Wanda nel suo libro. << Se ne andarono in questo modo in molte>>. Wanda le ricorda, scrivendo i loro nomi, come su una lapide, perché sono vittime innocenti, uccise da un odio assurdo, freddo, cinico, umanamente in-concepibile.

L’esasperazione e l’odio delle sopravvissute era indicibile. Ma Wanda, ricordando quella tremenda situazione, riesce a mantenere il suo equilibrio cristiano. <<Non provavo odio e neanche adesso lo provo. Cosa vedevo in quei tedeschi? Li guardavo e cercavo in loro le persone>>.

Renzo Allegri

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