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«Io, maratoneta in carrozzina»

di Claudio Rinaldi
crinaldi@gazzettadiparma.net

Vietato piangere. Non si può. Non si può piangere per una malattia, quando la persona che la malattia la vive, e subisce, giorno dopo giorno, sa affrontarla con tanta serenità, con tanto coraggio.  Non si può piangere pensando a Francesco, se lo si sente raccontare la sua storia.
Francesco è uno nato per lo sport. Giocatore di pallacanestro e podista, ma anche istruttore in palestra e allenatore (sempre di basket). Non gioca, non corre, non allena più: non può. E’ seduto su una carrozzina, non muove più le gambe né le braccia. Da quando nella sua vita è arrivata una brutta cosa, la Sla.
Francesco Canali ha 41 anni, una moglie,  Antonella, bella e determinata come lui, e  due figlie splendide: Laura, 8 anni, e Martina, 5. Francesco ha un sogno: correre la maratona di New York. Correrla sulla carrozzina, con quattro amici che si alterneranno a spingerlo. Il sogno diventerà realtà il prossimo novembre: e servirà a raccogliere fondi per l’Aisla, l’associazione che aiuta i malati di questa brutta cosa.
Non si può piangere, nemmeno se (è il caso di chi scrive) si conosce Francesco da qualcosa come trent’anni, dai banchi della prima media, alla Giordani, dai parquet del minibasket. E se si ha avuto l’onore, perché di questo si tratta, di essere cooptato come parte del progetto: con l’incarico, da amico di antica data e da neofita maratoneta, di essere uno di quelli che spingeranno la carrozzina. Da Staten Island a Brooklyn, dal Queens a Manhattan, dal Bronx di nuovo a Manhattan. Anche là, quando entreremo in Central Park e saremo a poche miglia dal traguardo, sarà vietato piangere: non sarà facile, lo sappiamo già tutti.
Una vita per lo sport

La passione per il basket sboccia già alle elementari. La prima casacca di una carriera lunga 25 anni è quella della Montebello. Poi quella della mitica Cbm (nel settore giovanile) e vent’anni di Cus (con parentesi alla  Parmense, alla Ducale e all’Excelsior). Play prima e guardia poi. Con buone doti tecniche e una grande elevazione. «Sono alto 1 metro e 80. Se mi davi una palla da pallavolo, schiacciavo che era un piacere. Con la palla da basket, no: perché non ho le mani abbastanza grandi per tenerla». A 16 anni fa un provino per la Nazionale cadetti. Un giorno che non dimenticherà mai: perché sul parquet conosce Gianluca Manghi, nascerà un’amicizia bellissima. «Faceva il pivot, era 20 centimetri più alto di me e me l’hanno fatto marcare. Una faticaccia». Come allenatori, Francesco ha, tra gli altri, Paolo Gandolfi – al quale resta molto affezionato – Clyde Insogna, Daniele Gatti e Claudio Gorreri.
La penna nera

Intanto, gli anni passano. Dopo le medie, va all’Itis e poi si iscrive all’Isef. Al mattino studia, al pomeriggio va in palestra a tenere corsi e alla sera si allena e poi esce con gli amici. A vent’anni tutto è possibile. Va soldato negli Alpini: Car a Cuneo e destinazione a Trento, nel Genio pionieri. Lo spirito degli Alpini gli entra «dentro»: se ne renderà conto molto più tardi, sarà fondamentale anche per affrontare le difficoltà della malattia. «E’ una cosa difficile da spiegare – dice lui –. Ma l’aria che si respira non si dimentica più. La solidarietà, la fatica, l’amicizia».
Giornalista per vocazione
Dopo il congedo, comincia a scrivere i primi pezzi per la «Gazzetta». Per lo sport, per la provincia, per la cronaca, per gli spettacoli. «Ho una casa a  Lalatta del Cardinale, vicino a Palanzano, là conosco tutto e tutti. Sono diventato il corrispondente del paese: saltavo in macchina e andavo, a caccia di notizie. Magari partivo all’alba, stavo a Palanzano mezza giornata e tornavo per scrivere un pezzo». Adesso non può più, ma è orgoglioso di essere ancora un collaboratore insostituibile: per l’attività degli Alpini, per il basket, per le iniziative dell’Aisla. Anche se i pezzi non riesce più a scriverli: deve dettarli a un software di riconoscimento vocale, che li scrive al posto suo. «Ho sempre tenuto molto alla “Gazzetta”: ricordo ancora con quanto entusiasmo ho lavorato per l’adunata parmigiana degli Alpini, per esempio. O le trasferte in Grecia, in Ucraina e alle Baleari per seguire il Lavezzini in Coppa Ronchetti. Avevo anche fatto un pensierino a cercare di fare del giornalismo una professione: ma la malattia l’ha reso impossibile. Però tengo ancora tutti i miei articoli: anche quelli che ho scritto per la “Gazzetta dello Sport”, per il “Corriere della Sera”». Nel frattempo, inizia a lavorare a scuola, come tecnico di laboratorio.
La passione per il podismo

Smette di giocare a basket a 33 anni. E si dà al podismo. «Correvo anche prima, soprattutto d’estate, quando non c’era il campionato. Ma non avevo mai fatto gare. Mi sono messo a correre un po’ più seriamente, ma sempre da amatore. Mi facevo le tabelle da solo, grazie ai miei studi all’Isef: e ho cominciato a fare le prime gare». Rigorosamente con la canotta del Cus, il vecchio amore (ma per le corse non competitive indossa quella dei Marciatori parmensi). Comincia con le 10 chilometri, poi aumenta pian piano le distanze. Corre tre mezze maratone: la Cariparma Running, le Terre verdiane e quella di Reggiolo. «Il mio obiettivo era aumentare la distanza e correre la maratona. Avevo un sogno, da sempre: potermi allenare bene, fare una bella maratona e poi accompagnare in una 42 Km un non vedente». Non fa in tempo a coronare il sogno.
La malattia

«I primi sintomi sono arrivati proprio correndo, nel 2000: mi capitava di essere molto stanco, dopo un allenamento: ma non davo peso alla cosa, pensavo di essere stressato, poco allenato. E non l’ho dato nemmeno a una strana cosa che mi è successa qualche volta: mentre mi facevo la barba, mi capitava che il pollice si bloccasse: tornava normale solo massaggiandolo a lungo». Il medico gli prescrive gli esami del sangue: tutto a posto, tranne il Cpk, l’enzima muscolare, che è molto alto. «Mi stancavo sempre di più. Mi capitava di fare 4 chilometri e mi sembrava di averne fatto 40». Altri medici, altri esami. «Niente di strano, non hai niente». «E non apriamo questo capitolo – sospira lui – perché, tranne rare eccezioni, ho trovato ben poca umanità e professionalità, nei miei giri per ospedali e cliniche». Solo verso la fine del 2004 qualcuno, all’ospedale di Vaio, pronuncia la parola Sla. Ma è solo un’ipotesi, per il momento. Altri esami, altri accertamenti. «Una volta dovevo fare un test sotto sforzo. Chiedo come lo eseguono. “In genere facciamo fare le scale e poi procediamo con l’esame”. No, dico io. Io sono un podista: preferisco correre. Mi metto in pantaloncini e maglietta, esco da Vaio e imbocco la strada panoramica per Salso. Arrivo quasi a Salso e torno indietro, sudato fradicio. Sono pronto per l’esame,  dico ai medici. Mi hanno dato del matto. Ma a me piaceva, correre».
La diagnosi

Marzo 2005. «Mi ricordo bene, quella dottoressa. Guardava il pavimento e non alzava mai gli occhi». Hai la Sla, caro Francesco. Lui lo sapeva già: da mesi studiava, faceva ricerche. Sapeva che quella brutta cosa non viene diagnosticata subito, si va per esclusione. Ma la speranza di sbagliarsi c’era, ovviamente. Invece, no. «“Non ti preoccupare, si vive bene anche su una sedia e rotelle – mi dice la dottoressa –. E mi chiede se credo nella reincarnazione, e mi scrive su un foglietto il titolo di un libro che parla di quello. “Magari ti aiuterà”». Non è un film, così glielo dicono. «Per un giorno e mezzo ho guardato un muro della mia camera. Immobile. Senza aprire bocca. O uno apre la finestra e si butta giù o reagisce, non ci sono altre strade. Io ho reagito». Ma come si fa a reagire? Come diavolo si fa? «Grazie allo sport, mi ha aiutato molto – dice convinto –. Sono uno che non molla, io». Una volta c’era da fare il tiro decisivo a un secondo dalla sirena: e la palla scottava, nelle mani. Adesso c’è un’altra partita, da giocare. «Anche lo spirito alpino mi ha aiutato. Molto. Anche la fede, anche Lourdes. C’ero già andato diverse volte, prima della malattia. Adesso, dopo otto o nove viaggi, potrei fare la guida. E’ difficile da spiegare, ma Lourdes ti ricarica le pile: è la magia dell’aria che respiri, sia per chi crede sia per chi non crede. Io penso seriamente di essere stato miracolato. “Dentro”. Un miracolo spirituale. Il mio atteggiamento è cambiato molto. Devo ai viaggi a Lourdes la mia serenità».
La vita oggi

Per un anno, un anno e mezzo riesce a fare una vita normale, o quasi. Quasi, perché deve smettere di correre, e poi di guidare. Ma cerca di continuare a fare quello che ha sempre fatto. «Per me è stato relativamente facile, abituarmi alla malattia. Perché per fortuna procedeva lentamente, mi dava il tempo di abituarmi ai cambiamenti. Certo, è brutta. Molto brutta. Tutto cambia: le cose che facevi non le puoi più fare. E ti arrabbi, eccome se ti arrabbi. Ma devi fartene una ragione. Molti non ci riescono e stanno ancora peggio. La mia serenità mi aiuta molto».
Per molto tempo, tiene tutto dentro di sé. Al fratello Giuseppe, di un anno più giovane, viene diagnosticato un tumore. Per non far preoccupare ulteriormente i genitori, non dice nulla. «A volte, mi capitava di cadere, in casa dei miei. Loro, preoccupatissimi. E io, bluffando, ripetevo che non era nulla, trovavo delle scuse». Il calvario di Giuseppe – allucinante per sfortuna, diagnosi sbagliate, false illusioni, terapie massacranti – finisce lo scorso 8 ottobre. Se n’è andato che non aveva ancora quarant’anni.
Da due anni, Francesco vive quasi solo sulla carrozzina. Riesce a lavorare, sempre come tecnico di laboratorio (da quest’anno all’istituto Giordani): e già questo è un grande aiuto. Il problema è dipendere dagli altri, sempre. «Hai sete? Se non c’è qualcuno che ti dà da bere resti a secco. Hai la candela al naso? Se qualcuno non ti aiuta te la tieni. Hai bisogno di tutto e di tutti. E’ questo il problema». Il discorso di sempre: o ti abbatti, o reagisci. «Io reagisco. Guai a chiudersi in casa, guai a piangersi addosso. Esco, vedo gli amici, vado in giro con mia moglie e le mie bimbe». E pensa a New York, alla prossima sfida. Ci pensa e sorride.
No, non si può piangere, pensando alla sua grande sfida.
IL CONTO CORRENTE: Cariparma, agenzia 8,    via Torelli 51/A
c/c  57369480  intestato a Aisla Onlus – Maratona New York  2010 –     Iban    IT43N 06230 12708 000057369480

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