Dopo 42 anni, la scomparsa della più grande cantante lirica di sempre resta ancora un giallo. Ecco come il marito della Callas, Giovanni Battista Meneghini, ricordava gli eventi strani e inspiegabili che si verificarono dopo il decesso.
Oggi, 16 settembre, ricorre l’anniversario della morte di Maria Callas, la più grande cantante lirica del Novecento e tra le più grandi di sempre. Aveva 53 anni.
Sono trascorsi 42 anni da quel giorno drammatico. La cantante Maria Callas è più viva che mai. Conta ammiratori ed estimatori in tutto il mondo. Soprattutto tra i giovani appassionati di lirica. Ma il “giallo” della sua morte non è mai stato risolto. Nelle biografie si legge che l’autopsia stabilì che la causa del decesso fu un infarto. Bugie!! La salma non è mai stata sottoposta a nessuna autopsia. Il certificato di morte venne firmato dal medico di famiglia di Ferruccio, il cameriere della cantante, e nessun altro potè poi vedere la salma che venne frettolosamente cremata.
Fin dall’inizio, la storia di quella scomparsa risultò misteriosa e avvolta in situazioni oscure e complicate. Furono fatte varie ipotesi su quel decesso improvviso. Compresa quella del suicidio. Il marito della cantante, Giovanni Battista Meneghini era convinto che fosse stata uccisa. Lo affermava apertamente nelle sue interviste.
Per ricordare la morte di Maria Callas, sono andato a rileggermi l’ultimo capitolo del libro, “Maria Callas mia moglie”, che scrissi con il marito della cantante. E’ un documento impressionante. Che evidenzia sospetti, e dubbi incredibili. E documenta come questa grandissima artista trascorse gli ultimi anni della sua vita nella solitudine più triste, al punto da aver pensato varie volte anche al suicidio.
Ecco il racconto di Meneghini, tratto da quel capitolo.
<<Il 16 settembre, giorno in cui Maria morì, io ero ammalato. Avevo da poco avuto un infarto.
<< Quel pomeriggio, quando mi svegliai, chiamai la governante per farmi accompagnare in giardino. Mi accorsi che era preoccupata e non parlava. Pensai avesse avuto brutte notizie sulla mia degenza. Solo in seguito seppi che qualche ora prima aveva ricevuto la notizia della morte di Maria e non sapeva come comunicarmela, temendo per la mia salute. Aveva mandato il marito e il figlio alla ricerca di un medico perché fosse presente….
<<Volevo partire subito per Parigi, ma i medici me lo proibirono…
<<I funerali si svolsero martedì 19 settembre. La salma fu portata nella chiesa ortodossa e poi al cimitero. Furono funerali frettolosi e quasi clandestini che meravigliarono tutti. Grace di Monaco non riuscì a nascondere il suo sdegno.
<< Una volta al cimitero, la salma non venne tumulata ma portata all’inceneritoio per la cremazione. “Perché? in nome di chi? Per quali disposizioni?” mi chiedevo angosciato, e fremevo di non poter far niente. Maria non poteva aver dato disposizioni del genere.
<<Attendevo con ansia di conoscere il suo testamento. Desideravo sapere se Maria avesse lasciato qualche lettera per me, una parola di conciliazione, di perdono. Ma per quanto mi dessi da fare, attraverso amici e conoscenti, non riuscivo a sapere niente. Di quel suo testamento non si ebbe mai traccia.
<<La cosa mi sembrava strana. Maria aveva un carattere preciso ed era abituata a organizzare la sua vita fin nei minimi particolari. Quando viveva con me, spesso parlava della nostra esistenza da vecchi, di cosa avremmo fatto, dove avremmo voluto morire ed essere sepolti. Mi chiedeva continuamente di andare in comune a Sirmione a comperare due tombe, in modo che dopo la morte potessimo riposare l’uno accanto all’altra. Una volta avevamo quasi litigato per il fatto che io non trovavo il tempo per accontentarla.
<<Per quanto riguardava il testamento, aveva un’idea ben precisa. “Poiché non abbiamo figli” mi aveva detto varie volte “sarebbe buona cosa lasciare tutte le nostre sostanze all’Istituto dei tumori, per la ricerca sul cancro. Questo brutto male potrà essere un giorno sconfitto dai medici, ed io voglio aiutarli in questa lotta”.
<<Il 18 ottobre finalmente riuscii a partire per Parigi. Ero accompagnato da due amici: l’avvocato Avesani e Ennio Lucchiari…
<<Il mio viaggio aveva soprattutto lo scopo di cercare di veder chiaro nel “giallo” della morte di mia moglie e sapere chi aveva ordinato la sua cremazione.
<<Per prima cosa volli andare sulla tomba di Maria. Al cimitero un custode mi accompagnò in un sotterraneo le cui pareti erano coperte da piccole piastrelle di marmo con sopra scritto un numero. “Ecco, quella è la persona che cerca”, disse il custode indicandomi la piastrella col numero 16.258. Mi buttai su quella piccola lastra di marmo e cominciai a piangere. I miei amici mi sorreggevano. Mi sentivo mancare.
<< Dopo un po’ mi trascinarono via. Andammo negli uffici del cimitero. “Voglio sapere perché mia moglie è stata cremata”, chiesi al direttore. Fu molto gentile. Mi fe ce vedere il registro con la verbalizzazione della richiesta. A chi accompagnava il feretro di Maria, l’ufficiale aveva rivolto le domande prescritte: “Quali sono le disposizioni?” “Chiediamo l’incenerimento”, fu la risposta. “Da parte di chi viene la domanda?”. “Io sono Jean Rouen”.
<<Ma chi era questo Jean Rouen? Mai saputo che nella famiglia di Maria esistesse una persona con quel nome. Dall’ufficiale seppi anche che l’incenerimento di Maria non venne effettuato il giorno dopo la consegna del cadavere, come è di prassi, ma subito. Mezz’ora dopo l’arrivo al cimitero, Maria fu cremata. Perché tanta fretta? Con infinita tristezza e pena mi fermai alcuni minuti davanti a quell’inceneritoio a osservare il camino da cui era uscito anche il fumo prodotto dal corpo adorato di Maria. Mi pareva di impazzire.
<<Nelle settimane successive, tornai spesso a Parigi per andare sulla tomba di Maria. A Natale di quell’anno vi rimasi per dodici giorni, ma in quel periodo mi giocarono un brutto scherzo. Io avevo dato disposizioni di avviare le pratiche per portare le ceneri di Maria a Sirmione e seppellirle dove lei desiderava. La notizia era arrivata alle orecchie di coloro che, non so per quali ragioni, volevano tenermi lontano da mia moglie. Così, per impedirmi di portarle via, le avevano sottratte e depositate in una banca. Per una settimana io andai a piangere e a portare fiori davanti a quella piastrella dietro la quale non c’era niente. E poi si arrivò all’ultimo atto di questo “giallo”: la dispersione delle ceneri di Maria nel Mare Egeo. Gesto inqualificabile. Così di Maria non è restato più niente.
<<Ma io non mi rassegnavo e volevo sapere la verità. Con tutti i mezzi leciti e illeciti, tentai di carpire notizie e particolari sulla fine di mia moglie. I camerieri di Maria avevano dato questa versione della morte: Maria era deceduta improvvisamente, mentre dal bagno cercava di rag¬giungere la sua camera. Quel giorno aveva fatto colazione, poi aveva chiesto un’aranciata perché aveva molta sete. La cameriera, Bruna, gliela aveva portata in bagno, e Maria l’aveva bevuta d’un fiato. Mentre tornava in cucina, Bruna sentì un tonfo dietro di lei. Accorse e trovò Maria riversa per terra. Chiamò l’altro cameriere, Ferruccio, e insieme la trasportarono sul letto. Quando vi giunse, non respirava più.
<<Era veramente accaduto questo? Quando ci fu la divisione dell’eredità con i parenti di Maria, chiesi di poter avere le sue carte e i suoi scritti. Non fui accontentato, perché dal suo studio era scomparso quasi tutto. Tra le cose rimaste c’era però un libro di preghiere che Maria teneva sul comodino accanto al letto. Nelle pagine di quel libro trovai un biglietto che sollevava inquietanti dubbi sulla sua fine.
<<Si tratta di un foglio da lettera, azzurro, con l’intestazione dell’Hotel Savoy di Londra, sul quale Maria aveva scritto, a matita, cinque righe. Nell’angolo in alto, a destra, la data: “estate ’77”, che indica che quelle righe erano state scritte nei giorni o nelle settimane che precedettero la morte. Sotto la data, una sigla: “a T.”, che sta certamente per “a Titta”. Infatti, quella “T” era tipica di Maria quando scriveva il mio nome. Poi, le cinque righe: “In questi fieri momenti, tu sol mi resti. E il cor mi tenti. L’ultima voce del mio destino, ultima croce del mio cammin”. Sono versi tratti dalla Gioconda di Ponchielli.
<<È chiaro che Maria non scrisse quei versi per tenerli a memoria, ma per lasciare un messaggio. I momenti più importanti della nostra vita erano legati all’opera di Ponchielli. Maria aveva cantato Gioconda per la prima volta subito dopo l’arrivo in Italia, nell’estate del ’47, cioè esattamente trent’anni prima, e fu durante le prove di quell’opera che nacque il nostro amore. Inoltre Maria l’aveva incisa in disco ai primi di settembre 1959, cioè proprio nei giorni in cui aveva deciso di lasciarmi per andare a vivere con Onassis.
<<Ma la chiave del messaggio sta, secondo me, nel significato che hanno i versi nell’opera. La protagonista li canta all’inizio del quarto atto, nella drammatica scena del suicidio. I versi cominciano infatti con una parola che Maria non ha scritto e che è: “Suicidio!…”.
<<Chissà, forse Maria si è tolta la vita. Se non lo ha fatto, lo aveva certamente pensato. Ma perché si era ridotta in quello stato? Ho saputo che negli ultimi tempi viveva disperatamente sola. Dopo la morte di Onassis non usciva più. Quasi tutti i giorni, se non pioveva, si faceva accompagnare in macchina nel parco per far passeggiare i suoi cani, che erano vecchi e ciechi. Aveva il terrore di restare sola. La domenica il personale aveva la giornata libera, e Maria faceva di tutto per convincere il cameriere a restare in casa. Il sabato sera giocava a carte con lui, e nel bel mezzo della partita smetteva dicendo: “Continueremo domani sera”. “Devo uscire”, protestava il cameriere. E lei: “Non vorrai lasciare la partita incompiuta”. Il giorno dopo supplicava il cameriere di restare a finire la partita, e questi, impietosito, quasi sem¬pre rinunciava alla sua serata di libertà.
<< Così era ridotta Maria Callas, e quella tremenda solitudine la uccise. Ma la colpa di quella solitudine non era mia, bensì di coloro che avevano fatto di tutto per dividerla da me. Io ero sì un uomo all’antica, poco elegante, non più giovane, certamente non mondano e salottiero; ma ero l’uomo che l’adorava, che viveva per lei. Nei dodici anni in cui eravamo stati insieme, Maria aveva continuato a ripetere a tutti di essere una donna tanto felice. Io non pensavo ad altro che ad assicurarle quella felicità sino alla fine>>.
Renzo Allegri