Benedetta Bianchi Porro, eroina del nostro tempo

Benedetta Bianchi Porro, una ragazza dell’Emilia-Romagna, morta nel 1964, a 27 anni e mezzo, è stata proclamata beata il 14 di settembre.

“Il Faustino” aveva annunciato la beatificazione nel febbraio scorso [Trovate l’articolo qui]. Ora desideriamo raccontare ampiamente la storia di questa ragazza.

Un tempo, eventi di questo genere avevano una risonanza grandiosa tra il popolo cristiano. Oggi, passano quasi inosservati. La cerimonia di beatificazione di Benedetta si è tenuta a Dovadola, in provincia di Forlì, dove Benedetta nacque e dove è sepolta. La notizia è stata ripresa in sordina dai mezzi di comunicazione di massa. Molti operatori dei media, avranno pensato che si trattasse della buona ragazza di paese, santarella fin dalla nascita, umile e remissiva, molto lontana dai giovani d’oggi. Invece, Benedetta non è niente di tutto questo. La sua breve esistenza, guardata freddamente e con distacco, è stata quella di una vera straordinaria eroina. Bella ragazza, dotata di una intelligenza superiore, di volontà e coraggio straordinari, si è imbattuta fin dalla più tenera età in malattie micidiali che l’hanno portata alla sordità, alla cecità, all’immobilità fisica, ma che non sono riuscite mai e fermare la sua voglia di vivere, il suo entusiasmo per la vita. Ha lottato fino all’ultimo respiro con il sorriso sulle labbra e spesso piangendo per il dolore. Il coraggio e l’eroismo per sopportare tante sofferenze lo aveva trovato nella sua fede cristiana. In un meraviglioso compagno di viaggio che era Gesù, il Crocifisso- Risorto. Ed è per questo che la Chiesa l’ha proclamata beata, proponendola ad esempio a tutti i giovani che vogliono realizzare l’inestinguibile sete di immortalità che sentono nel loro cuore.

Benedetta-bambina-con-la-famiglia-I-genitori-Elsa-e-Guido.-I-fratelli-da-sinistra-Leonida-Gabriele-Manuela-e-BenedettaiLa storia di Benedetta è soprattutto una storia di sofferenze.

Era nata Dovadola l’8 agosto 1936. Il padre, Guido, era un famoso ingegnere e la madre, Elsa Giammarchi, una donna colta e molto sensibile. Benedetta aveva davanti a sé un avvenire splendido. La famiglia poteva aiutarla a sviluppare tutte le sue doti e aveva i mezzi per farla studiare come voleva. Ma il destino cominciò subito ad accanirsi contro di lei.

Quando era ancora piccola fu colpita dalla poliomielite che le paralizzò la gamba destra. Fu sottoposta a cure specialistiche, riuscì a guarire ma la gamba rimase più corta.

Aveva un’intelligenza vivacissima e imparò a leggere e a scrivere a cinque anni. Aveva una grande passione per la musica e suonava bene il pianoforte, sapeva dipingere e scriveva poesie. A 17 anni diede la maturità classica e subito dopo si iscrisse all’università. Studiare medicina fu sempre il suo grande sogno. “Voglio diventare medico”, aveva scritto a un amico. “Voglio vivere e lottare per tutti gli uomini”.

Durante il primo anno di università però, cominciò a manifestarsi la terribile malattia che doveva portarla alla morte. I primi sintomi, li aveva già avuti nell’ultimo anno di liceo. Un giorno, mentre il professore la interrogava, si accorse di non sentire le parole. Vedeva le labbra dell’insegnante muoversi, ma non sentiva nulla. Quella sera scrisse nel suo diario: “Oggi sono stata interrogata in latino. Ogni tanto non capivo quello che il professore mi chiedeva. Quando poi ho alzato la testa ho visto i miei compagni che ridevano. Che figura devo fare ogni tanto. Ma che importa? Un giorno forse non capirò niente di quello che gli altri dicono, ma sentirò sempre la voce dell’anima mia: è questa la vera via che devo seguire”.

Benedetta-Bianchi-PorroAl termine del primo anno di università Benedetta era diventata quasi completamente sorda. I familiari le consigliarono di lasciar perdere gli studi: era impensabile che potesse andare avanti in quelle condizioni. Ma lei non si arrese. Volle proseguire la carriera universitaria e si sottopose a diverse cure specialistiche. Nessun medico però era in grado di diagnosticare la sua malattia, che progrediva inesorabile. Oltre all’udito, cominciarono i disturbi alla vista e alle gambe. A volte perdeva l’equilibrio. Fu costretta ad andare all’università accompagnata da una persona e ad appoggiarsi al bastone. I medici continuarono ad essere indecisi sulla natura del male e Benedetta, studiandosi da sola, riuscì a fare una diagnosi esatta: era affetta da neurofibramotosi diffusa, detta anche morbo di Recklingshausen, una malattia che non perdona.

Per tentate di fermarne le conseguenze sulla vista e sull’udito i medici decisero di fare un’operazione al cervello. L’intervento fu effettuato il 27 giugno 1958, ma non riuscì. Inoltre, la parte sinistra del volto di Benedetta restò paralizzata. Si rese necessario un secondo intervento ma anche questo non migliorò la situazione.
Benedetta fu costretta a interrompere gli studi. Abbandonò l’università di Milano e si ritirò nella villa della famiglia a Sirmione per un periodo di riposo. Dopo alcuni mesi riprese a studiare e riuscì a diventare assistente di laboratorio in uno stabilimento termale di Sirmione. Nell’autunno del 1958 ritornò a Milano per dare gli esami di patologia medica e patologia chirurgica e li superò entrambi con ottimi voti. Volle ritornare a frequentare l’università, ma le difficoltà erano diventate ormai insormontabili. Qualcuno allora le consigliò di passare alla facoltà di biologia, decisamente meno impegnativa. Tentò anche questa strada, ma la sua passione era diventare medico e dopo alcuni mesi tornò a iscriversi a medicina.

Continuava a studiare con disperazione, si trascinava all’università per dare gli esami e veniva sempre promossa. In vista dell’ultimo esame, quello di igiene, Benedetta era ridotta ormai ad rottame. Anche le gambe non l’ubbidivano più. Il 29 giugno 1959 si presentò per l’ultimo esame, ma non riuscì a superarlo. Aveva 23 anni ed era la prima volta che non veniva promossa. Un mese dopo fu ricoverata e operata al midollo spinale. L’intervento invece di restituirle l’uso delle gambe, gliele paralizzò completamente e da quel momento Benedetta fu costretta a vivere in poltrona o a letto, fino alla morte.

Benedetta-con-dedica-al-papàDopo quell’ennesima operazione si capì che per lei non c’era più speranza. Abbandonò Milano e si trasferì nella villa di Sirmione. La paralisi progrediva, le complicazioni si moltiplicavano e nell’autunno del 1962 fu nuovamente ricoverata all’ospedale. Aveva la bocca infiammata da ascessi dentari e fu necessario estrarle tutti i denti. Perse l’uso del gusto e dell’olfatto. In poco tempo tutto il suo corpo era diventato insensibile. Solo la mano destra restava viva.
Nel febbraio del 1962 i problemi alla vista si aggravarono. Nel giro di pochi giorni fu operata due volte al cervello ma fu tutto inutile. Divenne completamente cieca.

Visse in queste terribile condizioni, sorda, cieca e paralizzata, per circa un anno, spegnendosi lentamente senza mai pronunciare un parola di lamento. Questa è l’incredibile avventura di Benedetta Bianchi Porro.

Nel corso degli anni ho incontrato varie persone che vissero accanto a Benedetta ed ogni volta chiedevo a lori ricordi e impressioni.

<<Non era nata con la vocazione alla sofferenza>>, mi raccontò Anna Maria Cappelli che fu amica di Benedetta e ne divenne la prima biografa. <<Era una ragazza che amava intensamente la vita. A otto anni aveva scritto nel suo diario: “Che bello vivere. C’è l’universo incantevole. Che gioia. Sono tanto felice. Stasera, prima di andare a letto, ho contemplato un magnifico tramonto. Che felicità!”.

<< Quando cominciarono a manifestarsi i primi sintomi della malattia, non si perse d’animo perchè era sicura di vincerli. Scriveva nel diario, durante il liceo: “Stamattina in classe mi chiamavano, ma io non sentivo. Quando ho alzato la testa ho visto che tutti ridevano. Ma che importa? Che meravigliosa giornata di sole è oggi”.

<< Nel 1962, ormai paralizzata e costretta a letto, fece il primo viaggio a Lourdes. Aveva ancora una gran voglia di guarire, di vivere. Tentò di ottenere un miracolo con tutte le sue forze. Pregò e fece voto alla Madonna di farsi suora se fosse guarita. Solo quando tornò a Lourdes per la seconda volta, un anno prima della morte, si rassegnò completamente, accettando in pieno il suo calvario. Al ritorno scrisse alla sua amica Paola: “La Madonna mi ha fatto capire la ricchezza del mio stato e non desidero altro che conservarlo. E’ stato questo per me il miracolo di Lourdes, quest’ anno”.

Benedetta-universitaria<<Durante quel viaggio accadde un fatto meraviglioso Benedetta aveva accanto a sé un’ammalata di nome Maria, anche lei paralizzata. La ragazza non si rassegnava al fatto di dover tornare a casa nelle stesse condizioni in cui era partita: voleva guarire perchè sapeva che nessuno avrebbe più potuto prendersi cura di lei. Sua madre, infatti, l’unica persona che l’aveva assistita, si era anche lei gravemente ammalata. Maria pregava e piangeva ma la guarigione non avveniva. Benedetta soffriva nel vedere quella ragazza così disperata. Cercava di consolarla e le diceva: “Maria, ricordati che hai un’altra mamma in cielo, non resterai mai sola”.

Nel corso degli anni ho incontrato varie persone che vissero accanto a Benedetta ed ogni volta chiedevo a lori ricordi e impressioni.

<<Non era nata con la vocazione alla sofferenza>>, mi raccontò Anna Maria Cappelli che fu amica di Benedetta e ne divenne la prima biografa. <<Era una ragazza che amava intensamente la vita. A otto anni aveva scritto nel suo diario: “Che bello vivere. C’è l’universo incantevole. Che gioia. Sono tanto felice. Stasera, prima di andare a letto, ho contemplato un magnifico tramonto. Che felicità!”.

<<Poco prima della partenza per Milano, quando il pellegrinaggio era già finito, Benedetta volle andare con Maria davanti alla grotta per un’ultima preghiera. La ragazza singhiozzava forte. Benedetta fece avvicinare la sua barella a quella di Maria, prese la mano della ragazza, la strinse tra le sue e cominciò a pregare. Dopo qualche minuto disse. “Maria, la Madonna è lì, ti guarda, diglielo che vuoi guarire, lei ti sta ascoltando”. Dopo qualche minuto Maria, si alzò in piedi: era completamente guarita e camminava gridando di gioia>>.

<<Conobbi Benedetta quando ero una ragazzina>>, mi ha raccontato Anna Mancini, una signora di Sirmione. <<Benedetta veniva nella sua villa di Sirmione e la vedevo tutti i giorni. Quando si iscrisse all’università a Milano, andai a lavorare in casa sua. Per me era come una sorella. Le ero sempre accanto. Poiché aveva difficoltà a camminare, la accompagnavo anche a una scuola speciale per sordomuti. Così potei imparare anch’io a comunicare facilmente con lei.

<<Era di una volontà eccezionale. Alla sera non potevo uscire da sola perchè ero una ragazzina e allora le dicevo: “Benedetta, mi accompagni al cinema?”. A lei non interessavano i film, ma per fare felice me rispondeva sempre di sì. Il suo attore preferito era Montgomery Clift. Era appassionata di musica e andava volentieri a vedere i balletti alla Scala. Sua sorella Emanuela era, allora, una ballerina della Scala e io sono andata spesso con Benedetta a vedere i balletti. Non sentiva la musica, ma la conosceva per averla studiata al pianoforte e seguiva incantata la scena.

benedetta-bianchi-porro-al-telefono<<Studiava sempre. In camera aveva sempre molti libri e di notte leggeva. Al mattino si alzava prestissimo e si metteva a studiare. All’università la accompagnavo io e assistevo alle lezioni accanto a lei. Il mio compito consisteva nell’essere sempre attenta per sentire se la chiamavano. Allora io le davo un colpo con il gomito, lei capiva e rispondeva all’appello. I professori però non le volevano bene. La trattavano male. Non tutti sapevano che era sorda. Quando la interrogavano, Benedetta cercava di fissare attentamente le loro labbra per cercare di decifrare le parole, ma spesso non ci riusciva e non rispondeva alle domande. Io sapevo che conosceva la materia e sapevo quanto soffriva nel fare quelle brutte figure. I compagni ridevano, lei diventava rossa e restava lì immobile.

<<Una volta accadde una scena terribile. Eravamo andati all’università per un esame. Il professore le fece una domanda ma Benedetta non riusciva a capire e allora disse al professore di essere sorda e chiese che le venisse rivolta la domanda per iscritto. Il professore, adirato, scagliò il libretto di Benedetta verso la porta gridando: “Fuori di qui, non si è mai visto un medico sordo”. Senza pronunciare una parola Benedetta andò a raccogliere il suo libretto e uscì. Piangeva disperatamente. Prima di entrare in casa mi raccomandò di non dire niente a sua madre. Adorava la mamma e temeva di farla soffrire. Per questo teneva per sé tutti i suoi dispiaceri e le umiliazioni che era costretta a subire all’università. Io avevo sempre taciuto, ma quella volta non ubbidii e raccontai tutto. La signora andò dal rettore dell’università, riferì il fatto e il rettore intervenne per far rifare l’esame a Benedetta, pregando il professore di rivolgere le domande per iscritto. Il professore si rifiutò e incaricò il suo assistente di fare l’esame. Benedetta lo superò con trenta e lode e allora anche il gran professorone si commosse e venne a congratularsi e a chiederle scusa di averla trattata in quel modo.>>.

<<Durante i primi anni di università>>, mi ha raccontato Maria Grazia Bolzoni, amica di Benedetta e sua compagna di studi <<tutti noi pensavamo che Benedetta fosse superba. Se ne stava in disparte, non parlava mai con nessuno, sembrava non si degnasse di stare con noi. Un giorno io dissi agli amici. “Volete scommettere che la faccio parlare?”. Mi avvicinai e le dissi: “Ehi tu, come ti chiami? Mi presti i tuoi orecchini da provare?”. Lei mi sorrise timida e un poco smarrita, capì dal mio gesto e si tolse gli orecchini. Poco dopo seppi che era sorda, per questo non partecipava alle nostre conversazioni.

Dovadola-il-cardinal-Comastri-sulla-tomba-di-Benedetta<<Un giorno volli accompagnarla a casa sua. Era felice ma anche preoccupata. Zoppicava e non voleva darlo a vedere. Non voleva essere aiutata quando attraversava la strada, temeva di disturbare. Durante il tragitto non potevamo conversare perchè lei non capiva e io non ero ancora abituata a parlare con i segni. Ci indicavamo sorridendo i negozi, le vetrine sotto i portici e la Galleria. Lei mi rivolgeva domande congegnate in modo che io potesse rispondere semplicemente con un cenno del capo: sì oppure no.

<<In seguito diventammo amiche. Stavamo spesso insieme. Mi parlò della sua malattia e mi disse che avrebbe fatto qualunque cosa per guarire. Conversavamo per intere ore. Lei parlava e io scrivevo le risposte o le domande. Finché non diventò cieca, fu questo il nostro modo di parlare.

<<Amava moltissimo lo studio della medicina e apprendeva con grande facilità. Se non fosse stata ammalata sarebbe diventata un grande medico.

<<Fui io a presentare a Benedetta una mia amica, Nicoletta Padovani, che diventò la sua “guida spirituale”. Nicoletta la aiutò a capire quale era la sua vera vocazione. Dio voleva da lei il dolore, il sacrificio di tutta se stessa e dei suoi ideali. Benedetta cominciò a capire e non si sottrasse alla chiamata di Dio. Da allora, in lei ci fu un cambiamento incredibile. Me ne accorsi dalle lettere che scriveva. Aveva trovato più serenità e più forza per sopportare la sua croce. Ora pensava solo agli altri. Soffriva per gli altri. Pregava per gli altri, e quando lo faceva aveva una espressione che non era terrena.

<<Le fui vicina durante l’ultimo intervento chirurgico, il 27 febbraio 1963. L’intervento era fissato per le 17, io andai in clinica alle 13 e Benedetta aveva molta paura. Su un pezzetto di carta le scrissi le parole di Bernanos nel romanzo “Diario di un curato di campagna”, modificando lievemente il testo perchè non comprendesse che il curato alludeva alla propria morte: “Se avrò paura dirò, senza vergogna, ‘Ho paura’ e il Signore saprà rassicurarmi”. Benedetta lesse e ripeté a mezza voce quelle parole, sorridendo. Poi, mi ringraziò ripetutamente.

<<A tarda sera, quando si svegliò dall’anestesia dell’operazione, soffriva molto. Era sconvolta dal terrore di essere lasciata sola durante la notte. Mi supplicò di darle da tenere in mano il cordone del campanello ma nell’agitazione lo teneva tirato facendolo suonare ripetutamente. Accorse la suora, ma non riuscivamo a calmarla. Quando infine riuscii a farle capire che non l’avrei lasciata sola, non finiva di ringraziarmi. Durante la notte fu tormentata dal dolore e dall’arsura, ma non chiese mai da bere. Continuava a pregare e diceva: “Che fatica, mio Dio, che fatica. Quanto ho sofferto. La mia croce è più pesante di quella che posso portare, ma voglio donare con gioia, non per forza”.

<<Al mattino ascoltò la messa e fece la comunione. Era calma. Per tutto il giorno fu tranquilla, sembrava distratta. Verso le 18 chiese che ore fossero. Disse: “Allora avvisate mia madre che da parecchie ore ho perso la vista”. La madre accorse. Benedetta si preoccupò subito: “Ti prego, mamma, fa che il professore non sappia di aver lavorato invano”.

<<Dopo qualche giorno una grande pace entrò in lei. Sembrava che questa nuova, terribile prova l’avesse completamente cambiata, era come se non appartenesse più a questo mondo. Molti giovani studenti venivano a trovarla. Essa parlava a tutti. La mamma, attraverso la mano destra, l’unico punto sano del corpo, trasmetteva i nomi dei visitatori.

La-tomba-di-Benedetta-nella-chiesa-di-Dovadola-in-provincia-di-Fprlì<<Durante la mia ultima visita, poche settimane prima che morisse, le dissi: “Benedetta mi vorresti bene anche se scoprissi che non valgo nulla?”. E lei rispose: “Come non vali nulla? Sei una figlia di Dio e sei mia sorella”. Le dissi poi che se mi fossi fatta suora avrei preso il suo nome. Lei rispose con fermezza: “Rimani dove sei, Maria Grazia. Ognuno si chiami come si deve chiamare. Lo sa Dio quando deve dare e quando deve togliere. Se vorrà qualcosa di più da te, te lo farà sapere”>>.

Ho conosciuto anche la mamma di questa meravigliosa ragazza e le chiesi di rievocare gli ultimi momenti della vita di sua figlia. <<Benedetta è mancata alle 10.40 del 23 gennaio 1964>>, mi raccontò la signora Elsa. <<Era una mattina gelida, grigia e nebbiosa. Il giorno precedente l’avevo sorpresa mentre parlava da sola. Diceva: “Ma quando sarà l’incontro? Quando sarà?” Poi si scosse e tornò in sé.

<<Quella sera pregai l’infermiera, che veniva a casa ad aiutarmi ad accudire Benedetta di restare a dormire con lei. Non volevo lasciarla, ma ero stanchissima e pensavo di trascorrere almeno una notte completamente tranquilla.

<<Ero seduta davanti alla televisione, quando, improvvisamente, suonò il campanello della stanza di Benedetta. Mi precipitai da lei e le domandai: “Che cosa succede?”. Benedetta mi rispose: “Desidero che tu ti inginocchi qui per ringraziare con me Dio di tutto quello che mi ha dato”. Risposi brusca. “Ah no, questo no: Dio ti ha dato solo sofferenza”. Feci per andarmene ma lei mi trattenne la mano e ripeté: “Mamma, ti prego, inginocchiati e prega con me”. L’accontentai.

<<Durante la notte Benedetta non chiuse occhio. Continuava a ripetere all’infermiera che sarebbe morta il giorno dopo. “Questa è una notte di preghiera e non di sonno”, diceva. E ancora: “Domani stai molto vicina a mia madre, perchè sarà per lei una giornata molto faticosa”.

<<Al mattino, appena mi vide, l’infermiera mi disse. “Oggi Benedetta muore, me l’ha detto lei”. “Stia zitta!”, risposi. Ero però preoccupata. Andai a vedere mia figlia e mi sembrava stesse come al solito. Aprii la finestra della sua camera e fui sorpresa vedendo uno stormo di uccellini che svolazzavano intorno cinguettando festosi, come in un giorno di primavera.

<<Alle otto, Carmen, la mia figlia più piccola, che aveva dieci anni, stava per andare a scuola. L’infermiera la chiamò e le disse: “Questa mattina devi salutare bene tua sorella, perchè quando torni, potrebbe essere morta”. Carmen corse in camera di Benedetta, saltò sul letto e le parlò attraverso i segni della mano. Benedetta le disse: “Ricordati: cerca di essere più buona che brava”.

<<Carmen uscì. La seguii con lo sguardo. In fondo alle scale avevamo una vetrata dalla quale si scorgeva il giardino. Dopo che Carmen era passata, mi sembrò di vedere qualche cosa di bianco sul terreno. “Ha perso un quaderno”, pensai e uscii per andare a prenderlo. Ma giunta in giardino, rimasi sorpresa: quel bianco era, in realtà, una bellissima rosa fiorita all’improvviso. Era una cosa assolutamente inspiegabile, in pieno inverno con quel tempo nebbioso.

<<Mi ricordai allora che, due mesi prima, Benedetta aveva detto a una sua carissima amica, Giuliana, che veniva spesso a trovarla, di aver fatto uno strano sogno: era entrata nel cimitero di Dovadola e aveva visto una sola tomba, tutta circondata di luce con una rosa bianca sopra. Benedetta aveva detto: “Per chi crede, tutto è segno: che significato avrà quella rosa?

<<Preoccupata, tornai in camera di mia figlia. Mi sedetti sul suo letto e le dissi: “Sai, Benedetta, in questa giornata così fredda è fiorita una rosa bianca in giardino: vuoi che te la vada a prendere?” E lei mi rispose: “No, mamma, più tardi. Questo è un dolce segno. Ora stai qui con me”. Il suo volto emanava una luce che non avevo mai notato. Mi sembrava che Benedetta fosse particolarmente felice. Dietro i vetri della finestra vidi un uccellino che si era posato sul davanzale e cantava forte. Lo dissi a Benedetta, lei sorrise e con voce limpida cominciò a cantare una vecchia canzone: “Rondinella pellegrina”. Anche questo mi lasciò sconcertata perchè da oltre un anno Benedetta non riusciva ad emettere che pochi flebili suoni, quasi indistinti. Anche se i suoi occhi non vedevano era girata verso la finestra. La aiutai a sollevare il capo. Poi cercai di farle bere qualche cosa, ma non riuscì a inghiottire niente. Dalla bocca uscì un rivolo di sangue. Chiamai l’infermiera e mia figlia Emanuela. Benedetta le prese la mano, la riconobbe e disse: “Grazie”. Venne poi il medico che le praticò un’iniezione. Benedetta sussurrò ancora: “Grazie”, e spirò. Dopo la morte, il suo volto divenne bellissimo, come quando aveva 18 anni>>.

Renzo Allegri

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