UN TENORE LEGGENDARIO
E’ mancato il 12 dicembre 2018, a 81 – In questa straordinaria testimonianza del 1978, il grande tenore racconta gli incredibili dettagli dell’inizio della sua carriera.
Ho rivisto e “riascoltato”, per caso, su un canale televisivo, “Cavalleria rusticana” di Mascagni, nella versione cinematografica del 1968 con la direzione di Herbert von Karajan.
Quell’anno, l’opera era stata allestita per il teatro dalla Scala, con la regia di Giorgio Strehler e il successo era stato strepitoso e Karajan volle ricavarne una trasposizione cinematografia. La realizzò con l’aiuto di un regista svedese, Åke Falcke, il quale mantenne le linee generali ideate da Strehler per la Scala, aggiungendo però degli interventi resi necessari dalle esigenze cinematografiche, interventi che un po’ turbarono l’armonia del disegno raffinato di Strehler.
La parte musicale però non ne risentì. Ed fu soprattutto quella che continuò a incantare le platee cinematografiche di mezzo mondo. Sotto la guida di Karajan, l’orchestra della Scala, il coro, i cantanti, in particolare i tre protagonisti, Fiorenza Cossotto, Gianfranco Cecchele, Giangiacomo Guelfi, avevano creato un raro insieme magico. Di quelli che non conoscono il logorio del tempo e non si dimenticano. Dal 1968 sono trascorsi 51 anni. Dalle grandi sale cinematografiche, il filmato è passato al piccolo schermo delle televisioni e il suo fascino resta intatto, continuando a suscitare ammirazione.
Rivedendo quella “Cavalleria rusticana” diretta da Karajan, ho provato anch’io le stesse emozioni di tanti anni fa. Direi ancora più intense, perché mi veniva spontaneo fare dei raffronti con edizioni di “Cavalleria” successive, spesso povere, finte e prive di magia artistica.
Ciò che mi ha colpito maggiormente sono state le voci dei tre protagonisti. In particolare quella del tenore, Cecchele. Giangiacomo Guelfi, baritono, e soprattutto il mezzosoprano, Fiorenza Cossotto, sono spesso ricordati nelle cronache musicali. Hanno conquistato e mantengono una fama vasta e intangibile. Gianfranco Cecchele non è stato fortunato con i media. Non lo hanno inserito nell’elenco dei miti. Ma, in questa opera, e anche in altre del periodo d’oro della sua carriera, resta un grandissimo interprete. La sua voce di tenore era rara, per timbro, eleganza, armoniosità e spontaneità. La sua presenza scenica, era disinvolta e superba. In quegli anni, Cecchele fu veramente una un artista da leggenda.
Purtroppo, quel periodo magico non durò a lungo. Ad un certo momento, Cecchele ebbe dei problemi vocali. Ma con pazienza e lavoro li superò. Poi, per ragioni strane, fu anche vittima di deprecabili invidie e di sporchi giochi politici che andrebbero approfonditi e chiariti. Ma neppure queste avversità riuscirono ad abbatterlo. Diradò le presenze in palcoscenico, ma quando vi saliva era sempre un artista di rango. Un leone indomabile. Il 12 dicembre 2018, se ne è andato silenziosamente. Un po’ trascurato, anche in questo occasione, dalla grande stampa. Ma per la storia, la sua avventura lirica è stata e resta straordinaria.
Era nato il 25 giugno 1938, a Galliera Veneta, in provincia di Treviso. Nel 1968, al tempo della “Cavalleria Rusticana” diretta da Karajan, aveva 30 anni. Ed era in carriera soltanto da quattro. In soli quattro anni aveva spopolato e bruciato tutte le tappe importanti.
Contadino di professione, aveva cominciato a studiare musica dopo il servizio militare.
Iniziando da zero, cioè senza avere prima mai saputo cosa fosse un “do” o un “si bemolle”. Dopo soli 18 mesi di lezioni, debuttava al Bellini di Catania con tale successo da essere immediatamente chiamato alla Scala, e poi subito all’Opera di Parigi, dove interpretò Norma accanto alla Callas, e quindi al Metropolitan di New York e al Covent Garden di Londra. In meno di due anni, da contadino completamente ignorante di musica si era trasformato in un grande tenore.
La Scala, il Metropolitan, il Covent Garden sono una specie di “sogno proibito” per i giovani cantanti lirici. Bi¬sogna fare anni di gavetta in teatri minori per conquistarli, e l’arrivo in quei “santuari del canto” significa la fama per la vita.
Nella storia della lirica si conoscono pochissimi casi di ascesa così veloce nella carriera lirica come è accaduto per Gianfranco Cecchele
Lo incontrai per una intervista nel 1978. Aveva 40 anni. Cantava da 14. Aveva affrontato già molti dei ruoli più prestigiosi del registro tenorile. Era stato Radames, il guerriero innamorato di Aida, più di 500 volte. E da nove anni era protagonista delle stagioni liriche alla Scala di Milano. Con Luciano Pavarotti era il tenore più acclamato.
Avevo letto sui giornali che aveva iniziato a interessarsi di canto lirico a 25 anni. A quell’età, gli artisti, in genere, sono già affermati. E gli chiesi quale fosse stata la ragione di quel suo improvviso e tardivo amore per la lirica. E Cecchele mi raccontò una storia incredibile, che sembra proprio una favola.
<<Per la verità>>, mi disse « io non ho mai pensato di fare il cantante. Il sogno della mia vita era diventare campione di pugilato ed ero quasi riuscito a realizzarlo. Combattevo sul ring già da quattro anni e avevo vinto tutti i tornei provinciali e le selezioni nazionali riservate ai giovani.
<<Sul ring ero un torello e i miei allenatori dicevano che sarei diventato un grande campione dei medio massimi.
<< Dovevo battermi per il titolo italiano dei dilettanti, ma ero troppo giovane e occor¬reva il permesso scritto di mio padre. Quando gli portai il documento da firmare, mio padre mi tirò una sventola tremenda e mi disse di tornare a lavorare nei campi con gli altri fratelli. Così finì la mia carrie¬ra e il sogno di guadagnare una barca di soldi per non dover lavorare più la terra.
<<Io sono figlio di contadini ed ho sempre fatto il contadi¬no. E’ una professione molto dura. E’ bella, è bellissima, si vive a contatto con la natura; ma quando ci si deve alzare tutte le mattine alle quattro, e passare 16 ore con la schiena curva sotto il sole, vien voglia di cambiare mestiere. Io speravo di poterlo fare con il pugilato e invece ci sono riuscito cantando>>
<<Quando si è accorto di avere una bella voce lirica?>>, chiesi.
<<Sono stati gli altri ad accorgersene quando sono andato a fare il servizio militare. Al mio paese era impossibile emergere perché tutti hanno una bella voce. Non so per quale ragione, forse per il clima, l’aria, i cibi, non so, ma al mio paese le voci splendide si sprecano. Conosco almeno una decina di miei amici che, se avessero studiato, sarebbero diventati più famosi di me. C’è un macellaio che ha la stessa voce di Gigli; un mobiliere fa degli acuti così cristallini che mi meravigliano e mi entusiasmano ogni volta, anche se ho ascoltato i tenori più celebri. L’imbianchino che ha dipinto la mia casa, ha una voce da tenore lirico spinto che è un sogno. I fratelli Conte, impresari edili, sono due fenomeni. E ce ne sono altri. Nessuno di loro si è mai sognato di diventare cantante lirico di professione. Cantano in chiesa, cantano nei campi, nelle osterie. Nessuno fa loro dei complimenti. Anch’io ero come loro. Avevo una bella voce ma nessuno se ne accorgeva. Solo quando sono uscito dal mio paese sono riuscito a mettermi in evidenza>>.
<<Come è accaduto?>>
<<Per la festa del giuramento, all’inizio del servizio mili¬tare, fu organizzato uno spettacolo. Il colonnello aveva promesso un giorno di licenza a quelli che avessero-accettato di esibirsi sul palcoscenico. Io, che ero già sposato e non vedevo l’ora di tornare da Antonietta, mi presentai subito. Dissi che ero un pugile, ma le esibizioni di boxe non erano previste. Allora dissi che sapevo cantare. “Cosa canti?”, domandarono. “Granada” e “Torna a Surriento”, risposi: Un tenente, che suonava il piano, mi fece una specie di provino e disse che andavo bene. Allo spettacolo ebbi molto successo, vinsi il giorno di permesso e tornai a casa da mia moglie.
<<Al rientro, il colonnello mi chiamò a rapporto. “Sono un appassionato di lirica”, mi disse. “Ho studiato musica e me ne intendo. Tu hai una voce stupenda”. Mi chiese dove avevo studiato. Gli risposi che non ero mai andato a scuola di musica, avevo imparato quelle due canzoni ascoltandole alla radio, ma non sapevo cantare altro. “Tu devi studiare perché diventerai famoso”, disse il colonnello. Gli risposi con una risata. “Parlo molto seriamente”, disse lui e aggiunse: “Se prometti di andare da un maestro di musica per un giudizio sulla tua voce, ti mando a casa dieci giorni in licenza”. “Parto immediatamente”, risposi con entusiasmo. Il colonnello volle darmi anche 15 mila lire.
<<Tornato a casa, mi presentai alla professoressa Iris Adami Corradetti, ex cantante e maestra di canto, a Padova. Le cantai le uniche due canzoni che conoscevo, Granada e Torna a Surriento. “La voce c’è”, disse la maestra. “Ma, oltre alla voce, non c’è altro. Occorrerebbero anni ed anni di studio per darle una preparazione passabile, senza, però, avere la certezza del risultato. Tenendo conto poi che la lirica è in cresi e diventa sempre più difficile far carriera in questo campo, io le consiglierei di lasciar perdere”. “Ha ragione” le risposi..
<<Trascorsa la licenza, tornai dal colonnello riferendogli il giudizio negativo della professoressa Adami Corradetti. “Io resto convinto”, rispose il colonnello “che se studi diventerai un grande tenore”.
<< Per tutto il resto del servizio militare, di canto non si parlò più.
<< L’occasione per tornare sull’argomento si presentò dopo il ritorno a casa. Nella primavera del 1962, in occasione di una sagra al mio paese, partecipai a uno spettacolo in piazza e cantai, come sempre, Granada e Torna a Surriento. Tra il pubblico c’era un forestiero. Venne a cercarmi e mi disse che era un ex corista, aveva cantato in molti teatri, aveva sentito tenori famosi ma raramente aveva ascoltato una voce bella come la mia. “Non mi prenda in giro”, gli risposi. “Mi sono già fatto sentire da una maestra famosa e mi ha detto che non ho alcuna qualità per far carriera”.
<< Rividi il forestiero quella sera stessa a casa mia. Era andato a parlare con mio padre. Aveva registrato le due canzoni che avevo cantato e aveva regalato il nastro a mio padre dicendogli: “Lo faccia sentire a un maestro che se ne intende: lei è il padre di un grande tenore”.
<< Mio padre, forse ricordando anche il giudizio del colon¬nello, si era lasciato suggestionare. Tenne il nastro e lo man¬dò a un parente, il dottor Franco De Cortivo, medico, primario di una clinica a Montebelluna, appassionato di lirica, che, per hobby, studiava canto con il maestro Marcello Del Monaco, fratello del grande tenore. Questo mio parente, appena ascoltò il nastro, si precipitò a casa mia. “Devo farti sentire subito a Del Monaco”, disse. Mi caricò sulla sua automobile e mi portò a Treviso. Anche al maestro Del Monaco cantai Granada e Torna a Surriento. Poi lui cominciò a farmi fare delle note, suonando al piano. Ad un certo punto mi disse: “Si rende conto che ha fatto un re bemolle?”. “Cosa vuol dire re bemolle?”, domandai io. Il maestro scrollò la testa. Poi parlò a lungo col dottor De Cortivo. Alla fine mi disse: “La voce c’è ed è bella. Bisogna, però, fare un lavoro di preparazione enorme. Se vuole studiare, io la preparerò”.
<< Quella sera, in casa mia, ci fu un lungo consiglio di famiglia. Farmi studiare significava impegnare soldi. Io ero sposato, avevo figli. La mia era una famiglia di contadini, non c’erano risparmi in banca. Mio padre disse: “Se vuoi studiare, faremo dei debiti, impegneremo le mucche, faremo ipoteche sui campi ma ti aiuteremo. Devi essere tu, però, a prendere una decisione. Lo sai che non abbiamo neppure un centesimo da buttare al vento”.
<< Ero indeciso. L’incontro con Marcello Del Monaco mi aveva dato fiducia. Era nata dentro di me una gran voglia di dare sfogo alla mia voce, che avevo sempre repressa. “Voglio tentare”, dissi, e il giorno dopo, 25 giugno 1962, andai alla prima lezione.
<<Dal maestro Marcello Del Monaco avrei dovuto studiare un’ora al giorno. In realtà restavo a casa sua dalla mattina alla sera. Finita la mia lezione, ascoltavo quelle che il maestro dava ad altri allievi. In quel periodo diversi tenori venivano da Del Monaco per ripassare le opere: Gastone Limarilli, Pier Miranda Ferraro, Angelo Mori, Amedeo Zambon e lo stesso Mario Del Monaco. Ascoltavo avidamente tutti, cercando di rubare i segreti di ognuno. A casa, poi, provavo e riprovavo, imitando, adattando ciò che avevo imparato ai miei mezzi vocali. Studiavo giorno e notte. Facevo i vocalizzi nella stalla, nei campi, correndo per rafforzare il fiato.
<<I progressi erano vistosi. Il maestro continuava a farmi complimenti e a dire che non avrebbe mai creduto di ottenere simili risultati. Io, però, non mi fidavo. Pensavo mi lodasse solo per incoraggiarmi a continuare e per non perdere un allievo.
<<Dopo sei mesi gli dissi che volevo misurarmi con altri tenori, per constatare ciò che ero realmente capace di fare. A Milano c’era un famoso concorso per cantanti lirici, organizzato dal Teatro Nuovo. Il regolamento diceva che bisognava portare solo tre romanze. Non era un programma impegnativo e potevo tentare anch’io. Preparai “Celeste Aida”, “Nessun dorma” e “Ma se non posso perderti”: tre romanze molto difficili ma adatte alla mia voce.
<<Non partecipavo per vincere, ma solo per sentire dei giudizi diversi da quelli delle persone che avevo sempre intorno. Quindi davanti alla com¬missione non avevo timore. Eseguii le tre romanze con sicurezza, impressionando i giudici. La commissione mi asse¬gnò la vittoria e una borsa di studio di mezzo milione. Tor¬nai a casa trionfante e ancor più deciso a continuare.
<<In 18 mesi feci il lavoro di cinque anni. Avevo iniziato le lezioni da Marcello Del Monaco il 25 giugno 1962 e il 3 marzo 1964 debuttai al Bellini di Catania con un successo strepitoso. “E’ nato un nuovo Mario Del Monaco”, scrissero i giornali. Qualche mese dopo ero alla Scala col Rienzi di Wagner, poi all’Opera di Parigi nella Norma con la Callas, poi al Metropolitan, al Covent Garden; non mi sono più fermato.
<<Bisogna tenere presente che io non ero ignorante solo nella musica, ma anche in tutto il resto. Fino a 25 anni non avevo mai letto un libro che parlasse di letteratura o di arte; non mi ero mai interessato di cultura. Per interpretare un’opera lirica, soprattutto ai nostri giorni, non è necessario solo conosce¬re la musica: bisogna entrare nello spirito del personaggio, saper stare in scena, muoversi con proprietà. In 18 mesi io dovetti imparare anche tutto questo: immagini il cambiamento che fui costretto ad operare dentro di me e a quali rischi mi esposi all’inizio della carriera.
<< Dopo il debutto di Catania, mi offrirono tre recite di Aida alle Terme di Caracalla. Andai a Roma quindici giorni prima per assistere ad alcune rappresentazioni e imparare i movimenti scenici di Radames. Non avevo mai visto l’opera, e ai giovani cantanti non si dava, allora, la possibilità di fare delle prove.
<< Durante la prima rappresentazione fui chiamato dal di¬rettore del teatro: “Il tenore si sente male”, disse. “Dovrebbe sostituirlo”. Ero talmente ingenuo che non mi passò per la mente il fatto che non avevo ancora mai visto l’opera, quindi non sapevo cosa fare in scena. Accettai con entusiasmo. Fortunatamente nel cast c’era una persona straordinaria, il mezzosoprano Fiorenza Cossotto che interpretava la parte di Amneris. Lei capì al volo la situazione e mi aiutò. Cantando accanto a me, o da dietro le quinte, mi diceva tutto quello che dovevo fare. Mi muovevo come una marionetta, ma nessuno se ne accorse. Fu un gran-de successo, e invece di fare solo tre recite di Aida, ne feci undici>>.
<<E’ mai accaduto che, rischiando in questo modo, l’opera finisse in un fiasco?>>, chiesi.
<<Mai. Sono sempre stato fortunato. Però ho commesso errori d’altro genere. Non avevo consiglieri né amici veri. Le persone che mi stavano intorno lo facevano per interesse. Ricevevo offerte di lavoro da tutto il mondo e accettavo tutto. Una sera cantavo Norma e la sera dopo un’opera moderna, sottoponendo le mie corde vocali a sforzi tremendi.
<<Dopo cinque anni di carriera comin¬ciai ad accusare disturbi in gola: ascessi, laringiti, afonia improvvisa. Gli acuti non mi venivano più limpidi e sicuri come una volta. Cominciai anche a fare delle stecche. “Che cosa mi succede?”, mi chiedevo meravigliato. La situazione peggiorò fino a diventare insostenibile.
«Certi miei colleghi mi avevano appioppato un soprannome maligno: mi chiamavano “Stecchele” e io bollivo di vergogna e di rabbia. Però avevano ragione: non ero più il tenore sicuro, dalla voce trionfante. Un giorno dissi a mia moglie: “Basta. Torno a fare il contadino. Ho guadagnato abbastanza per farmi una bella casa e sono contento. Non accetto di essere scritturato solo perché porto un nome famoso. Riprenderò a cantare quando riuscirò ad avere la voce di una volta.
<<Troncai realmente la mia carriera. Tutti dicevano che ero pazzo. “Nel mondo della lirica i rientri sono impossibili”, mi ripetevano cantanti e direttori d’orchestra. “Se vai fuori del giro, sei finito”. Non mi interessava. Volevo soltanto ritrovare la mia vera voce.
<<Per prima cosa mi feci togliere le tonsille. Poi trascorsi un lungo periodo di riposo, disinteressandomi completamente del canto. Infine ripresi ad esercitare la voce. Tornai a lezione da Marcello Del Monaco. L’operazione chirurgica, però, aveva cambiato la mia voce. Neanche con la nuova serie di lezioni ottenni un miglioramento, e così dopo qualche mese, lasciai perdere.
<<Ripresi a lavorare da solo. Ogni giorno eseguivo alcuni esercizi molto difficili che Del Monaco mi aveva insegnato quando ero andato da lui la prima volta. Apparentemente anche questi non davano alcun risultato, ma io insistevo con caparbietà. Dopo mesi e mesi, finalmente una mattina mi accorsi che tenevo bene le note e le sentivo chiare dentro di me. “Antonietta, ci siamo”, dissi a mia moglie. Infatti era la strada giusta. Continuando con quegli esercizi, riacquistai la mia voce e la mia sicurezza e, quando mi sentii preparato, de-cisi di riprendere la carriera.
<<Ma non fu impresa facile. Si era sparsa la voce che ero finito, che in pochi anni mi ero logorato, e nessun teatro mi voleva più. Fortunatamente, nel periodo della gloria avevo firmato contratti a lunga scadenza, e furono quelli a salvarmi. I teatri che avevano un contratto con me non poterono rifiutarmi. Il ritorno, però, fu trionfale. Alla “prima” erano tutti pronti a sbranarmi. Ma dovettero ammettere che la mia voce era splendida come quella del ’64. Ora, di questa parentesi critica, non si parla più. Ho ripreso l’attività a pie¬no ritmo. Sono tornato alla Scala, al Metropolitan, a San Francisco, a Londra, a Parigi, dappertutto. E sono carico di impegni>>.
La carriera di Gianfranco Cecchele continò, sopratttto all’estero. In Italia, come già detto, fu ostacolata, da invidie e da pressioni politiche, Nel 1983, si era fatto portavoce dell’ANALPI (Associazione Nazionale Artisti Liri Primari Italiani) che si batteva contro una consuetudine crescente in quegli anni in molti teatri italiani di preferire i cantanti stranieri lascando senza lavoro quelli italiani. Consuetudine deleteria che ha rovinato la grande tradizione delle voci italiane. Cecchele, generoso e combattente, si era schierato con le idee di quella Associazione per sostenere tanti colleghi rimasti senza lavoro, ma le tendenze politiche imperanti fecero la guerra a quella Associazione e Cecchele ci rimise le penne. In Italia cantò sempre meno. Le porte dei teatri di casa nostra che lo avevano osannato, restarono misteriosamente sempre chiuse.
Renzo Allegri