RICORDANDO IL 38° ANNIVERSARIO DELLA MORTE DI CARLO ALBERTO CAPPELLI, GENIALE PROMOTORE DI SPETTACOLI, LIRICI E TEATRALI.
Di Renzo Allegri
L’Arena di Verona ha voluto misurarsi con l’ira del Coronavirus. Questa pandemia ha terrorizzato il mondo, ha fermato l’attività di intere nazioni, interrotto iniziative di ogni genere. Anche la grandiosa stagione lirica dell’Arena 2020, annunciata con orgoglio, frutto di un lungo lavoro di preparazione e che aveva già raccolto una valanga di adesioni internazionali, è saltata. Ma i dirigenti hanno voluto dare un orgoglioso segnale di coraggio, salvando, a prezzo di grandi sacrifici, alcuni appuntamenti nel corso del mese di agosto.
E questa audace sfida alle avversità mi ha fatto venire alla mente le stagioni areniane degli anni Settanta del secolo scorso. Stagioni guidate da un timoniere ardito, leggendario, che, con scarsi mezzi economici, ma ricco di iniziative geniali riusciva a dar vita a spettacoli che gli storici ricordano con l’aggettivo di “mitici”. Quel timoniere si chiamava Carlo Alberto Cappelli.
Un uomo attivissimo. Sotto la sua direzione, durata poco più di un decennio, il pubblico degli spettatori dell’Arena era triplicato, con una ampia partecipazione di stranieri. Un giorno, quando festeggiava i dieci anni del suo incarico, Cappelli mi disse con evidente soddisfazione: <<Quando accettai l’incarico di sovrintendente dell’Arena, la media degli spettatori era di 200 mila per ogni stagione. Poi sono diventati 350 mila, poi 400 mila. Lo scorso anno hanno superato abbondantemente il mezzo milione. L’ottanta per cento di questa gente viene dall’estero. Per la prossima stagione abbiamo già prenotazioni dal Giappone, dall’Australia, dalle Filippine, dal Sudafrica, dalla Corea, perfino dalla Terra del Fuoco. I nostri spettacoli costituiscono un avvenimento unico al mondo, sono apprezzatissimi. Su quelli della scorsa stagione sono stati pubblicati 3500 articoli, e tutti positivi>>.
Conobbi Carlo Alberto Cappelli nel 1970, quando venne nominato sovrintendente all’Arena di Verona. Aveva 63 anni. Vestiva sempre in modo elegante, perfetto. Diventammo amici. Era una persona taciturna e schiva. Non parlava mai di sé e del suo lavoro. Non appariva mai nelle foto riguardanti gli spettacoli da lui organizzati. Non concedeva interviste ai giornali. Ma era sempre sorridente e per questo di piacevole compagna. Un giorno riuscii a registrare una lunga intervista. Un documento straordinario sull’attività di questo grande protagonista della cultura italiana.
Nato a Rocca San Casciano, in provincia di Forlì nel 1907, apparteneva a una famiglia di editori. <<Sì, io sono l’editore Carlo Alberto Cappelli>>, mi disse con orgoglio. <<Mio nonno era tipografo, mio padre editore-libraio, ed io ho sempre fatto e faccio l’editore: prima con mio padre e i miei fratelli, ora con alcuni nipoti. Ho appena celebrato il cinquantesimo anniversario dell’inizio di questa mia attività. La passione per il tea¬tro e per la musica è soltanto un hobby>>.
Un hobby che ha segnato e coinvolto la sua esistenza fin da quando era un bambino. Tutto il tempo libero dagli studi e dal lavoro di editore lo ha dedicato al teatro lirico e al teatro recitato.
<<All’inizio quella mia passione era privata>>, mi raccontò Cappelli. <<. Un interesse e un amore istintivo, irrefrenabile. Leggevo tutto ciò che riguardava il teatro e cercavo di frequentare tutti gli spettacoli possibili.
<<Nel 1914, la mia famiglia si trasferì a Bologna, assieme alla sede della Casa Editrice. E a Bologna quella mia passione trovò modo di crescere.
<<Quando avevo circa vent’anni, conobbi degli amici che avevano fondato una filodrammatica che si chiamava “La Stabile”. Vollero che partecipassi alla loro iniziativa. Eravamo dilettanti, ma riuscivamo a mettere in scena lavori ottimi. Ad un certo momento eravamo diventati così bravi che vollero recitare con noi dei professionisti famosi, come Emma Gramatica e Corrado Racca. Anche la grande Italia Vitaliani volle chiudere la sua carriera recitando con noi. Dalle nostre file uscì Luisa Ferida, che poi ebbe un certo successo nel cinema.
<<Della compagnia io, fin dall’inizio fui l’organizzatore. Visti i successi ottenuti, nel 1941 il podestà di Bologna mi incaricò di interessarmi alle sorti del Teatro Comunale. Fu così che feci il mio ingresso nel mondo della lirica. Cominciai a lavorare con tutto il mio entusiasmo e nel giro di due anni riuscii a mettere in piedi un’organizzazione efficiente: il Comunale divenne Ente autonomo, e io ne fui il primo sovrintendente. Terminata la guerra, lasciai l’incarico ad altri e tornai a interessarmi del teatro di prosa.
<<Un giorno, dopo la guerra, venne a trovarmi Federico Zardi. Era un musicista, diplomato al Conservatorio, ma per tutta la vita si era interessato di teatro. Bisognava fare qualcosa, mi disse, per rianimare la vita teatrale, per richiamare il pubblico al teatro. Di lì a poco fondammo il “Festival della prosa” di Bologna. Riuscimmo a portare a Bologna le grandi compagnie: il Teatro nazionale di Salvini, gli spettacoli di Visconti, la compagnia del Gobbi con la Valeri, Caprioli e Bonucci. Portai avanti il Festival di Bologna per 15 anni.
<<Contemporaneamente cominciai a fare l’impresario di compagnie teatrali: ne costituii più di cinquanta. Fui l’impresario preferito di Visconti: quasi tutti i suoi spettacoli teatrali li organizzai io; feci l’impresario della compagnia Morelli-Stoppa, di quella di Cervi, di Vallone, di moltissime altre. Per il teatro di prosa ho organizzato circa duemila spettacoli, forse più>>
In quel periodo aveva abbandonato la lirica?
<<Non ho mai tradito il teatro lirico. Continuavo a fare l’impresario di cantanti e a organizzare stagioni. Visto il successo del “Festival della prosa” a Bologna, gli orchestrali e coristi del Comunale nel 1956 andarono dal sindaco Dozza e gli dissero che mi volevano al Comunale. II sindaco mi chiese di accettare. Io non volevo farlo perchè l’ambiente si era politicizzato, ma dopo un sondaggio, visto che quasi tutti i partiti mi davano la loro fiducia, accettai l’incarico. Nel 1956 tornai al Comunale come sovrintendente e vi rimasi fino al 1964. La sta¬gione lirica in quel teatro durava pochi mesi. Gli artisti non ave¬vano un lavoro fisso. Mi proposi di creare un’orchestra stabile. Cominciai ad allargare gli impegni del Comunale portando gli spettacoli in provincia, poi nelle province vicine; poi organizzai tournée all’estero, in Svizzera e in Francia. L’attività degli artisti da due mesi passò a quattro, poi a sei, a otto, fino a undici. Nacque così l’orchestra stabile, che esiste ancora e lavora tutto l’anno. Quando lasciai la direzione del Comunale nel 1964, gli orchestrali e i coristi mi diedero una medaglia che conservo tra i più cari ricordi. C’è scritto: “A Carlo Alberto Cappelli che ha salvato il Comunale di Bologna”
Fare l’impresario è una professione redditizia?
<<Certamente. Se uno lo fa per i soldi può anche guadagnare. Ma a me il denaro non interessava. La mia casa editrice non ha mai avuto crisi. La mia posizione di “impresario per hobby” mi ha permesso di raggiungere risultati che forse un professionista non avrebbe ottenuto. Mi sono buttato in iniziative d’avanguardia che potevano essere un fiasco economico. Ho speso molti soldi per aiutare giovani artisti nei quali credevo. Vittorio Gassman, per esempio, l’ho lanciato io. Lo incontrai quando era giovanissimo e sconosciuto. Capii che aveva un ta¬lento eccezionale. Mi disse che sognava la realizzazione di un suo Amleto, ma non trovava fondi per fare la compagnia. Fondammo insieme il “Teatro dell’arte italiana” e diedi a Gassman la possibilità di fare il suo Amleto. Regista di quell’opera era un altro giovane sconosciuto che poi ebbe molta fortuna: Luigi Squarzina.
<<Il primo anno fu un trionfo, e Gassman rivelò al pubblico il suo talento. Al termine della prima tournee mi disse di ave¬re un’altra idea: voleva realizzare il Tieste di Seneca. Lui stesso ne stava facendo la traduzione dal Latino. Volli leggerla, la trovai meravigliosa e decisi di stamparla. Chiesi a Ettore Paratore, un grande latinista, amico di famiglia, di farmi l’introduzione. Quando seppe che la traduzione era dell’attore Vittorio Gassman, andò su tutte le furie: “Io sono un professore serio”, gridò “non accetterò mai di fare l’introduzione a un libro tradotto da un incompetente”. “Le mando lo stesso il manoscritto”, dissi “mi faccia il piacere di leggerlo; se non è di suo gradimento non farà l’introduzione”. Il giorno dopo Paratore mi telefonò’: “E’ una traduzione stupenda”, disse “e sono onorato di scriverne l’introduzione”. Così stampai il libro.
<<Un giorno vennero a trovarmi due giovani artisti: Romolo Valli e Giorgio De Lullo. Con Rossella Falk e Anna Maria Guarnieri avevano fondato a Milano la “Compagnia dei Giovani”. Il primo anno di attività era stato un disastro, e l’impresario non si sentiva di continuare. Chiesero aiuto a me. Capii che erano bravi e che avrebbero fatto fortuna, ma bisognava avere il coraggio di rischiare un capitale per farli conoscere. Riflettei qualche giorno, poi accettai il rischio. Sono stato impresario del “Giovani” per vent’anni: dodici anni come unico responsabile poi otto anni come socio. Con la Compagnia dei Giovani abbiamo portato in scena opere che il teatro italiano non potrà dimenticare. Con il Diario di Anna Frank abbiamo fatto più di 300 rappresentazioni in tutto il mondo. Siamo andati in America e in Russia. In URSS era in atto una campagna antiebraica, e non volevano darci il permesso di re¬citare, ma con mille astuzie riuscii ad ottenerlo. A Mosca il teatro era esaurito. Dopo lo spettacolo, il pubblico restò trenta minuti in piedi ad applaudire. II giorno dopo, le autorità ci impedirono di continuare la tournée a Leningrado, e dovemmo tornare a casa>>.
Ho conosciuto cantanti lirici famosi che le devono la carriera. Giuseppe Di Stefano, per esempio.
<<Sì, anche nel campo della lirica ho aiutato molti artisti. Dalla Sicilia, un giorno, mi telefonò il baritono Montesanto: “Ho un giovane tenore da farti sentire”, mi disse. Lo feci venire a Bologna col suo pupillo. Il giovane si chiamava Giuseppe Di Stefano. Mi cantò il “Sogno” dalla Manon. Non lo lasciai neppure finire: “Ti scritturo subito per 50 recite”, e gli feci firmare il contratto. Non avevo mai sent¬ito una voce simile. Feci debuttare Di Stefano in Manon a Reggio Emilia, patria di Ferruccio Tagliavini, grande interprete di Manon. Cantare Manon a Reggio Emilia, era come buttarsi nella fossa dei leoni, ma io sapevo quanto era bravo il giova¬ne siciliano. Alla vigilia della “prima” sembrava che in città stesse per scoppiare la rivoluzione. I partigiani di Tagliavini minacciavano rappresaglie. Durante il primo atto, in teatro ci saranno state cento persone. Nell’intervallo, però, accade una cosa meravigliosa: quelli che avevano assistito alla rappresentazione uscirono per le strade a parlare del fenomeno che avevano ascoltato. II secondo atto comincià con il teatro esaurito, e Di Stefano ebbe un trionfo. Continuò così nelle sere successive, e dopo la ventesima recita dovetti cederlo alla Scala.
<<A Bologna, c’era un mercante di frutta e verdura che mi era particolarmente affezionato. Andavo sempre a fare la spesa da lui. Un giorno mi disse: “Ho un favore da chiederle. Mio figlio ha la passione per il canto, ma non so se ha anche le qualità necessarie: perchè non lo ascolta e non gli da qualche consiglio?”. Il giorno dopo avevo davanti a me un giovane timido di nome Gianni Raimondi. Lo ascoltai. Aveva una voce ottima, ma la sua situazione economica gli impediva di prendere lezioni da un maestro. “Non ti preoccupare”, dissi: “domattina comincerai ad andare a lezione dal tenore Gherardi. Quando sarai pronto, ti farò debuttare. Intanto le lezioni le pago io. Mi restituirai i soldi quando sarai famoso”. “Famoso io?”, disse Raimondi impallidendo. “Si”, riposi “tu diventerai famoso, e presto anche”. Lo feci debuttare due anni dopo in Rigoletto.
<<Una mattina andai in ufficio presto, prima delle sette. Appena aperta la porta, sentii una meravigliosa voce di baritono. Un giovane stava pulendo una macchina da scrivere e cantava. “Oh, mi scusi”, disse il giova¬ne vedendomi. “Credevo che a quest’ora non ci fosse nessuno. Quando lavoro e sono solo, mi viene voglia di cantare. Sono un operaio della Olivetti: mi hanno mandato a pulire le macchine di questo ufficio”. Quel giova¬ne si chiamava Anselmo Colzani. Lo feci studiare e lo feci debuttare nell’Andrea Chenier. Di¬venne famoso, canta in tutti teatri del mondo, è un beniamino del Metropolitan di New York.
<<Sempre per aiutare i giovani cantanti organizzai a Bologna la “Settimana della celebrità”. Allestivo un’opera nella quale facevo cantare insieme un artista famoso e un giovane sconosciuto. L’artista famoso richiamava pubblico e i critici; lo sconosciuto aveva un’occasione magnifica per farsi conoscere. II primo anno chiamai Maria Callas a interpretare Tosca accanto a un milite della finanza. Era un giovane di buone qualità, ebbe un certo successo, ma fece una carriera piuttosto breve. Il secondo anno feci venire il tenore Giovanni Malipiero e gli misi accanto un giovane soprano, arrivata qualche settimana prima dalla Romania: Virginea Zehan, diventata poi Virginia Zeani. II terzo anno avevo convocato Mario del Monaco accanto al quale avevo messo una giovane molto promettente, una ragazza fiorentina. Era talmente emozionata all’idea di cantare accanto al grande tenore che non riusciva a emettere una nota. Dovetti sostituirla all’ultimo momento chiamando al suo posto Giulietta Simionato.
<<Uno degli ultimi ragazzi che ho aiutato e stato il baritono Garbis Boyagian. E’ un artista di grande talento, un nuovo Tito Gobbi. Me lo hanno fatto conoscere alcuni anni fa, a Bologna. Era arrivato dalla sua patria, l’Armenia, senza un soldo ma con tanta voglia di studiare musica nella terra di Verdi. Aveva cominciato a seguire le lezioni di canto della professoressa D’Angelo Ronchi, al Conservatorio, ma poi, improvvisamente, era scomparso. In seguito si seppe che aveva abbandonato la scuola perchè non avendo un soldo, saltava i pasti e per la fame non riusciva a cantare.
<<Gli diedi una mano, ed ora sta facendo una carriera eccezionale. Lo scorso anno ha vinto tutti i concorsi lirici in Italia. Ha inaugurato la stagione al Regio di Torino con grande successo; e a Trieste, con Il tabarro, ha avuto un autentico trionfo>>
Lei è stato Sovrintendente del Comunale di Bologna, impresario di compagnie teatrali, ha aiutato tanti giovani artisti, pur continuando a fare l’editore?
<<Come le ho già detto, io sono l’editore Carlo Alberto Cappelli. Questa è la mia professione. Ho lavorato sempre: di giorno, di notte, la domenica, durante le vacanze. In quarant’anni non sono mai arrivato in ritardo nel mio ufficio alla casa editrice. Quando era vivo mio padre, guai se non fossi stato puntuale. Era un uomo di quelli di una volta, e quando parlava, tremavo. Certe volte telefonavano in ufficio chiedendo: “C’e Cappelli, l’impresario?”. Allora mio padre urlava indignato: “Qui si stampano libri, non ci sono impresari”, e sbatteva giù il telefono. Ora mio padre non c’e più. Potrei anche non andare in ufficio, soprattutto quando ci sono le recite in teatro e torno a casa alle cinque del mattino. Ma anch’io sono un uomo all’antica e ho un sacro rispetto per la memoria di mio padre. Lui desiderava che fossi sempre puntuale in ufficio, nella casa editrice, ed io non manco mai: alle otto e mezzo sono sempre seduto al mio posto>>.
Questo era Carlo Alberto Cappelli. Un grande uomo, un grande impresario e soprattutto un uomo generoso fino all’inverosimile.
Renzo Allegri
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