Ricordando Rabindranath Tagore, il grande poeta indiano di cui, nel 2011, si è celebrato il 150° anniversario della nascita.
Di Marta Martelli
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“Chi sei tu, lettore, che leggi le mie parole tra un centinaio d’anni?”. Con queste parole, dalla sua India, Rabindranath Tagore si rivolgeva idealmente a ciascuno di noi e immaginava che la sua poesia, o forse ogni poesia, oltrepassasse i confini angusti del tempo mortale per raggiungere i posteri, le generazioni successive, per diventare immortale.
Tagore nacque, in India, a Calcutta, il 6 maggio 1861. Straordinario talento creativo, iniziò a comporre poesie da bambino e, dopo alcuni anni trascorsi in Gran Bretagna (periodo che gli permise di avvicinarsi con ammirazione al sistema di valori europeo), ritornò in India, con la convinzione che cultura orientale e quella occidentale potessero integrarsi pacificamente.
La sua visione spirituale e filosofica lo portò a creare un’originale fusione tra politeismo induista e cristianesimo, sulla base di un panteismo mistico che vedeva la manifestazione della presenza di Dio in ogni espressione della natura.
Nel 1913, Tagore ricevette il Nobel per la letteratura, con questa motivazione: «Per la profonda sensibilità, per la freschezza e bellezza dei versi che, con consumata capacità, riesce a rendere nella sua poeticità, espressa attraverso il suo linguaggio inglese, parte della letteratura dell’ovest».
Oltre che poeta, Tagore fu drammaturgo, prosatore, musicista, pittore. Ma da noi, oggi, è celebre soprattutto per le sue liriche che cantano con leggerezza e armonia l’amore vissuto come esperienza mistica che, secondo la visione orientale, pervade l’intera essenza dell’uomo.
Nel 1925 visitò Milano e tenne un discorso al Circolo filologico destando grande ammirazione con la sua serenità e la sua eloquenza armoniosa. Nei mesi scorsi la città di Milano, ricordando i 150 anni dalla sua nascita, gli ha reso omaggio con una serie di eventi culturali: cinema, letteratura, danze indiane, pubblicazioni e convegni.
La figura di questo famoso e interessante artista merita di essere approfondita. Rabindranath Tagore apparteneva a una nobile famiglia. Il padre era un ricco bramino. Rabindranath studiò nel Regno Unito e tornò in patria con il proposito di conciliare e integrare Oriente ed Occidente.
Profondo conoscitore della lingua inglese, tradusse in seguito le opere che prima aveva scritto in bengali. Fu il poeta della nuova India, moderna e indipendente, per la quale lottò non solo con le sue opere e con le sue iniziative di carattere sociale, ma anche con il suo fiero comportamento politico. Scrittore di brani musicali, si occupò della danza indiana e di pittura riscotendo notevole successo sia a New York che in Europa. Fu soprattutto grande come poeta lirico, il cui pensiero, ispirato ad alti concetti filosofici e religiosi, lo pone tra i più grandi poeti mistici del mondo. La sua produzione poetica gli valse l’assegnazione del premio Nobel per la letteratura nel 1913.
La poesia d’amore orientale presenta caratteristiche diverse da quelle con le quali la poesia occidentale esprime il sentimento d’amore. Pervasa di leggerezza, di distacco dalla soggettività, di ritualità ripetuta, evoca i vari momenti della vita nella visione spirituale che fonde sacro e profano, spirito e carne, Dio e uomo. Mistico, saggio, veggente, per il poeta orientale l’Amore coinvolge tutto l’essere umano ponendolo in relazione a Dio. Amore non solo come sentimento, quindi, ma realtà completa di tutto l’uomo che, permeandolo e avvolgendolo, lo supera e lo trasporta oltre ogni barriera tra l’umano e il divino, in una fusione intensa eppur sottile, energia che muove il cosmo.
Perciò si può ben comprendere come Tagore veda nel rapporto Amato-Amante la più completa esperienza di realizzazione dell’uomo. Esperienza che, anche nel momento più buio di tale rapporto, come l’abbandono, la perdita che nulla può colmare, nella sua poesia viene illuminata dalla visione di fede.
Leggendo le sue poesie si trovano continui riferimenti alla cultura, alle tradizioni ed ai costumi orientali, particolarmente indiani: si “odono” tintinnare i braccialetti, si “vedono” le donne attingere acqua al pozzo e il viandante stanco ed assetato venire sulla strada polverosa. In una sinfonia di immagini ecco le tartarughe scaldarsi al sole sulla spiaggia, alberi dai nomi esotici, fiori intrecciati a formare ghirlande posti al collo dell’ospite gradito e desiderato; gli elementi naturali, come le onde del mare e la luce lunare, accarezzare l’essere amato… Si “vivono” i momenti di tempo sospeso in attesa del monsone o in ascolto delle voci della natura e del cuore mentre si sta appoggiati all’uscio di casa. Piccoli grandi momenti della vita quotidiana… soffusi di armonia nella poesia intensamente appassionata eppur così delicata.
Nel 1901, creò a Santiniketan (che significa: asilo di pace) presso Bolpur, a 100 chilometri da Calcutta, una scuola dove attuare concretamente i propri ideali pedagogici: gli alunni vi vivevano liberamente, a immediato contatto con la natura, e le lezioni consistevano in conversazioni all’aperto, secondo l’uso dell’antica India. Lo stesso Tagore vi tenne conferenze di natura filosofica-religiosa. La scuola si fondava sugli antichi ideali dello Ashram (Santuario della foresta), affinché, come diceva, «gli uomini possano riunirsi per il supremo fine della vita, nella pace della natura, dove la vita non sia solo meditativa, ma anche attiva».
Il pensiero religioso-filosofico che sta alla base di tutta l’opera di Tagore è espresso organicamente soprattutto in “Sadhana”, ove raccolse una scelta delle conferenze tenute nella sua scuola di Santiniketan. Esso si fonda su un panteismo mistico che ha le sue radici nelle “Upanisad”, anche se è aperto ad altre tradizioni culturali. Partendo dalla contemplazione della natura, il pensatore indiano vede in ogni sua manifestazione la permanenza immutabile di Dio e quindi l’identità tra l’assoluto e il particolare, tra l’essenza di ogni uomo e quella dell’universo. L’invito a cercare il significato dell’esistenza nella riconciliazione con l’universale e con l’essere supremo percorre tutta la filosofia indiana, e Tagore ne è stato uno dei maggiori maestri nel XX secolo. Nelle sue liriche, come nella sua vita, espresse la sua ricerca convinta dell’armonia e della bellezza, nonostante ogni cosa, anche il dolore dei numerosi lutti che dovette soffrire.
La visione di Tagore della donna, che nel nostro tempo potrebbe apparire quasi negazione al suo diritto di realizzarsi come persona, è invece rivelazione. Per lui la donna è portatrice dell’energia vitale e creativa che distribuisce vita ed armonia alla famiglia, portatrice e custode della “luce”, e lei stessa è luce. La donna, nella sua capacità precipua di curare, alleviare, consolare, accudire, amare, svolgendo la sua missione realizza completamente la vita. Non perdendo mai di vista la concretezza e la realtà, dandosi anche fisicamente è, in ogni senso, amore, medicina, carezza. Essa ama, cura, accarezza “l’altro”… i suoi cari, le sue piante, i suoi animali con tenerezza e dedizione. Questa immagine di perfezione e di gioia vive nell’animo di Tagore, grande “sapiente” in questo come in ogni altro aspetto dell’esistenza, per tutta la sua vita come fiaccola viva che lo illumina, suscita ed alimenta in lui il desiderio di migliorare spingendolo a perseguire un ideale di verità realizzato nella semplicità della fede vissuta, della devozione illuminata dall’amore.
L’amore, per Tagore, non è solo sentimento, ma Persona, è Dio stesso e a Lui, l’Amante eterno, che incessantemente chiama a sé uomini e donne da ogni sconfinata solitudine, è non solo possibile, ma giusto chiedere sollievo, è naturale ricevere conforto, è infinita e assoluta realtà senza la quale la vita non avrebbe alcun senso. E per questo l’Amore stesso prega e diviene preghiera:
Dammi il supremo conforto dell’amore,
questa è la mia preghiera.
Il conforto che mi permetterà di parlare,
agire, soffrire secondo la tua volontà,
e di abbandonare ogni cosa per non essere
lasciato a me stesso.
Fortificami nei pericoli, onorami con la tua sofferenza
aiutami a percorrere i cammini difficili
del sacrificio quotidiano.
Dammi la suprema confidenza dell’amore,
questa è la mia preghiera.
La confidenza nella vita che sfida la morte,
che cambia la debolezza in forza,
la sconfitta in vittoria.
Innalzami, perché la mia dignità, accettando l’offesa,
disdegni di renderla.
Quando, nel 1913 venne insignito del prestigioso premio Nobel per la letteratura, Tagore devolse l’intera somma di tale premio a favore della scuola di Santiniketan.
A Santiniketan morì il 7 agosto 1941, lasciando di sé la divulgazione del suo pensiero, l’attività politica, la grande produzione artistica.
Oh, poeta, la sera s’avvicina;
i tuoi capelli diventano grigi.
Nel tuo meditare solitario
odi il messaggio dell’aldilà?
« E’ sera », rispose il poeta,
« e sto in ascolto perché dal villaggio
qualcuno potrebbe chiamarmi,
sebbene l’ora sia tarda.
Osservo se i giovani cuori vagabondi
s’incontrano, e due paia d’occhi supplicanti
chiedono che la mia musica
rompa il loro silenzio
e parli per loro.
Chi tesserà i loro canti appassionati,
se io siedo sulla riva della vita
contemplando la morte e l’aldilà? »
« Già tramonta la stella della sera.
Il fuoco d’una pira funeraria
muore lentamente
presso il fiume silenzioso.
Dal cortile d’una casa deserta
gli sciacalli urlano in coro
alla luce della luna sfinita.
Se un viandante, lasciando la casa,
viene qui a contemplare la notte
e ad ascoltare a testa china
il mormorio dell’oscurità,
chi gli sussurrerà i segreti della vita
se io, chiudendo le mie porte,
cercassi di liberarmi
dai legami mortali? »
«Poco importa se i miei capelli diventano grigi.
Sono sempre giovane e vecchio
Come il più giovane e il più vecchio
di questo villaggio.
Alcuni hanno negli occhi sorrisi
semplici e dolci,
alcuni un furbesco ammiccare.
Alcuni piangono alla luce del giorno,
altri piangono in segreto nel buio.
Hanno tutti bisogno di me,
e non ho tempo
di rimuginare sull’eternità.
Ho la stessa età di ciascuno,
e cosa importa
se i miei capelli diventano grigi? »
Marta Martelli