Oggi, 27 agosto, si ricorda la nascita di Edmondo Wojtyla, fratello di Papa Giovanni Paolo II. Un giovane medico, morto a 26 anni, per aver voluto assistere, in piena coscienza, una paziente colpita da scarlattina, malattia allora infettiva e mortale.
Edmondo era nato a Cracovia il 5 dicembre 1906, primogenito dei coniugi Emilia e Karol Wojtyla, sposi di cui è in corso il processo di beatificazione.
Aveva frequentato le scuole primarie a Wadowice ed era sempre stato uno dei migliori allievi. Terminato il liceo, aveva espresso il desiderio di studiare medicina per dedicarsi all’aiuto dei sofferenti. La sua era un’autentica vocazione altruistica e i suoi genitori, benché oggettivamente non avessero i mezzi economici per poter mantenere un figlio all’università, affrontarono sacrifici non piccoli per farlo studiare.
Edmondo si era così trasferito a Cracovia e anche all’università era uno studente esemplare. Un testimone di quegli anni, lo descrive come un giovanotto robusto e pieno di energia, con gli occhi azzurri, i capelli biondi, un aspetto da atleta. Serio, estroverso, educato, affascinante, sportivo, amante del bridge e degli scacchi e ottimo calciatore.
Karol, il futuro Papa, più giovane del fratello di 13 anni, adorava Edmondo. Lo considerava il suo idolo, l’esempio da imitare. Da grande, voleva diventare proprio come lui. I vicini di casa raccontavano che, quando Edmondo tornava da Cracovia per le vacanze, i due diventavano inseparabili. Edmondo giocava a calcio con il fratellino, lo portava in giro per la campagna tenendolo cavalcioni sulle spalle. Fu lui che gli trasmise l’entusiasmo per la vita all’aria aperta, l’amore per la natura e anche la passione per la montagna e per gli sci.
Nel 1930, Edmondo si laureò dando al fratellino un ulteriore motivo di orgoglio. Un anno prima era morta la mamma dei due ragazzi, Emilia, Aveva 42 anni e aveva lasciato un vuoto tremendo. Quella laurea aveva fatto tornare il sorriso sul viso del piccolo Karol.
Edmondo aveva difeso una tesi dal titolo “Gli effetti e le conseguenze della malattia alle coronarie” ottenendo il massimo dei voti e la menzione d’onore: “magna con laude”. Il piccolo Karol era andato alla cerimonia di laurea con il papà e aveva così potuto assistere a quel rito suggestivo, nell’antico e severo Collegium Majus di Cracovia, commuovendosi nel sentire i battimani all’indirizzo del fratello e nel constatare quanto stima avessero per lui i compagni di studi e i professori.
Edmondo aveva un grande ideale: dedicarsi ai sofferenti non solo per dovere professionale ma anche per vocazione cristiana, come gli aveva insegnato la madre. Per questo scelse di continuare gli studi, per specializzarsi, anche se ciò comportava nuovi sacrifici per la famiglia. Frequentò dei corsi presso la Clinica pediatrica di Cracovia. Poi entrò come interno all’ospedale di Bielsko, nella Slesia. Era assistente in cardiologia.
E fu là che perse la vita.
Alla fine di novembre del 1932, in quell’ospedale venne ricoverata una ragazza di nome Anna, colpita da scarlattina settica, malattia infettiva, che viene trasmessa da ammalato o da portatore sano. A quei tempi era una malattia mortale, perché non esistevano gli antibiotici.
Ogni ospedale aveva un reparto riservato per quei ammalati, in locali isolati, dove l’assistenza medica era pressoché inesistente, affidata a qualche persona caritatevole.
Quando Anna fu ricoverata all’ospedale di Bielsko, si osservò la normale procedura: venne messa in isolamento e praticamente abbandonata. Nessun medico, conoscendo bene quanto fosse pericoloso in contagio, volle prendersi cura di lei. Ma Edmondo, saputo della vicenda, si offrì volontario.
Conosceva perfettamente anche lui il rischio gravissimo cui andava incontro. Ma non ebbe esitazioni. La sua fu una scelta dettata da puro altruismo. Oltretutto, verso quella ragazza non aveva neppure obblighi professionale, in quanto non era una paziente che dipendeva dal reparto di cardiologia dove egli lavorava. Una scelta eroica, quindi, la sua, che solo la fede e la carità cristiana potevano ispirare.
Le testimonianze raccolte dai giornali subito dopo la sua morte, dicono che assistette quella ragazza con grandissimo impegno, tentando in tutti i modi di strapparla alla morte. Rimase accanto a lei giorno e notte, anche dopo che si era reso conto che non c’era più niente da fare. Rimase lì per confortarla, per impedirle che si spaventasse di fronte al grande passo estremo. E prese il contagio. Quando se ne accorse, era troppo tardi.
La malattia fu inesorabile.
Edmondo Wojtyla trascorse quattro giorni in un’agonia dolorosissima e senza il conforto dell’assistenza dei propri cari. Al padre e al fratello non fu permesso essergli accanto per via del contagio. Morì solo, affidandosi alla misericordia di Dio.
Dai giornali del tempo e dai discorsi ufficiali che vennero pronunciati dalle autorità alle sue esequie, si ricava che Edmondo era un giovane medico “impegnato” in progetti politici di “medicina sociale”, all’avvanguardia per quei tempi, ispirata al Vangelo. Con altri amici si stava, infatti, adoperando per far sorgere un reparto speciale per l’assistenza medica a favore degli operai, dei poveri e dei nullatenenti.
Renzo Allegri