Venticinque anni fa, la scomparsa di un grande artista, prozio del nostro direttore Tony Assante
di Roberto Allegri
A cinque anni dalla mostra antologica dedicata al pittore Guglielmo Cirillo, artista che è un vanto per Castellamare di Stabia.
Nella cittadina napoletana infatti, Cirillo è nato, nel 1901, ed è morto l’11 novembre del 1987, proprio venticinque anni fa.
Era tra l’altro, un prozio del nostro direttore Tony Assante, che spesso lo ricorda con grande affetta dato che il pittore aveva per lui, allora bambino, una predilezione speciale.
Guglielmo Cirillo, in vita, pur essendo un tipo riservato e schivo, ebbe grandi successi, esponendo in varie mostre soprattutto a Milano, Torino, Venezia e Roma. Con i suoi quadri vinse importanti riconoscimenti tra cui la “Medaglia d’Oro” alla II Biennale d’Arte Contemporanea di Roma.
Lo chiamavano “il pittore vagabondo”. E non esiste complimento migliore per un artista. Chi si dedica all’arte è per forza “vagabondo”, sulla terra e nello spirito.
E’ un’anima inquieta, sempre in viaggio, un cercatore. Anche quando passa la vita chiuso in uno studio, il cuore e la fantasia dell’artista sono sempre perduti nel mondo e nello spazio in cerca di forme, soluzioni, risposte e del sistema per spegnere il fuoco creativo che sente ardere dentro di sè.
Come ad esempio il grande scultore rumeno Constantin Brancusi (1876-1957), che trascorse gran parte della sua vita nel suo atelier di Parigi, muovendosi pochissimo ma lavorando giorno e notte con marmo, bronzo e legno, e compiendo un viaggio interiore talmente profondo da essere considerato il fondatore dell’arte moderna.
Cirillo era un vagabondo dentro e fuori.
Vagava alla ricerca della perfezione di forme e colori dentro di sé ma anche tra i boschi e le colline, la campagna e le rive dei fiumi, obbedendo all’irresistibile richiamo della Natura, la maestra d’arte per eccellenza.
Cullato dai silenzi che solo in Natura si possono trovare, Cirillo subiva lo stupore dell’uomo di fronte al Creato.
Ed essendo artista, avvertiva quindi l’urgenza di mettere sulla tela le proprie emozioni. Non solo ciò che era di fronte alla vista.
Ma anche gli odori e i suoni e le sensazioni tattili come la carezza del vento, particolari che si notano nell’energia delle sue pennellate.
Questo è ciò che colpisce a prima vista nei quadri di Cirillo.
Vi si vedono, in maniera nitida, le vergate del pennello e i colpi di spatola, e sono la firma del vigore e della spontaneità dell’artista.
E’ come quando si scrive una poesia di getto, in modo talmente passionale da lasciare veri e propri solchi sul foglio, anche da spezzare la punta della matita.
Ci sono occasioni in cui un artista sente che ciò che ha dentro sta per eruttare violentemente e tutto quello che può fare è tentare di assecondare, coi mezzi di cui dispone, il miracolo del processo creativo.
Una condizione che Guglielmo Cirillo conosceva bene.
Come tutti gli autodidatti, Cirillo ha calpestato la strada dei maestri venuti prima. Ha assorbito come una spugna il vedere dei grandi del passato.
Nei suoi dipinti vi è Monet, Manet e Cezanne, e anche alcuni lati cupi tipici dell’espressionismo.
Ma la scelta dei colori e delle forme e soprattutto l’energia impressa ai quadri li rendono unici.
Un dipinto in particolare, tra quelli che sono stati esposti nella mostra, ha colpito chi scrive.
Un ritratto di un vecchio addormentato che nel titolo si apprende essere il padre di Cirillo.
E’ un’immagine intensa, sofferta e anche drammatica perché ritrae in maniera spietata la debolezza della vecchiaia.
Ma anche la sua disarmante dolcezza. L’intimità di un figlio al capezzale dell’anziano genitore, di un figlio artista che accarezza il padre usando i pennelli con la riverenza di chi si trova di fronte alla somma cruciale di tutta la vita.
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