La straordinaria storia di Marcello Candia, milanese, tre lauree, imprenditore di successo, ma soprattutto “gigante della carità”, del quale è già in corso il processo di beatificazione.
L’INDUSTRIALE MISSIONARIO AMATO DA CREDENTI E ATEI
Crebbe in una ricca famiglia lombarda, educato dalla madre all’amore per i poveri – Dedicò tutto se stesso al successo della fabbrica fondata da suo padre, portandola al top in Europa – Nel 1965, a 60 anni, vedette tutto, e impegnò il resto della sua vita e tutte le sue ricchezze per i più poveri tra i poveri in Amazzonia , fondando ospedali, lebbrosari, asili, scuole che sono tuttora in piena e ottima attività
di Renzo Allegri
Tutti i libri su Marcello Candia sono disponibili su AMAZON.IT
Quando lo incontrai la prima volta, nel 1969, Marcello Candia aveva 54 anni.
Era un personaggio famoso soprattutto tra la “gente bene” di Milano. Negli anni dell’immediato dopoguerra, aveva dato prova di essere un brillante imprenditore. La sua fabbrica di acido carbonico, con sede a Milano e succursali in Toscana, Campania, Puglia e paesi esteri, era una delle principali ditte del settore a livello europeo. Poi, nel 1965, Candia aveva sbalordito tutti . Aveva deciso di vendere ogni proprietà per andare a fare il missionario laico in Amazzonia.
L’anno in cui lo conobbi, una giuria internazionale gli aveva attribuito il Premio della Bonta “Notte di Natale”, fondato da Angelo Motta, per esaltare un personaggio che avesse compiuto eccezionali atti umanitari. Candia era stato proclamato “l’uomo più buono dell’anno”.
Era arrivato dall’Amazzonia per ritirare il premio, consistente in una ingente somma. Ma era impacciato e confuso. <<Macché l’uomo più buono dell’anno>>, ripeteva imbarazzato, <<io sono soltanto un povero peccatore. Sono venuto a ritirare questo premio non perché lo meriti ma perché quei soldi mi servono. Sto costruendo un grande ospedale nella foresta brasiliana, a Macapà, e i costi sono spaventosi>>.
<<Laggiù ho trovato la mia famiglia>>, mi disse Marcello Candia sottovoce, quasi imbarazzato nel dover parlare di se stesso. <<Ci sono tanti bambini abbandonati, che non hanno niente. Se non li aiutiamo noi, possono morire di fame, di malattie, di sofferenze. Dio è Padre di tutti. Ci ha insegnato che ogni uomo è nostro fratello. E io considero quei bambini abbandonati e lebbrosi come miei figli>>.
Pronunciando quelle parole, il suo volto si era aperto in un sorriso dolcissimo, che mi commosse. Non disse altro sull’argomento. Ma mi fissò dritto negli occhi, come per trasmettermi ciò che aveva nel cuore e che non avrebbero potuto esprimere con le parole.
Ci lasciammo. Nel taxi mentre tornavo alla redazione del mio giornale, riflettevo. Era una giornata nebbiosa. La città era in fermento per i preparativi del Natale. La gente entrava ed usciva dai negozi comperando regali. Tutti pensavano ai loro cari, ai figli. Candia, l’ex ricco industriale, diventato povero per amore di Dio, era là nella sua cameretta, che pensava ai suoi piccoli in Brasile. Non era sposato, non aveva figli che portavano il suo nome. Ma, sotto l’impulso di un amore grandissimo, era diventato papà di una moltitudine di bambini che non avevano niente. Un amore eccelso, il più grande che si possa incontrare. Un amore che si avvicina a quello di Dio. La sua famiglia era immensa. E la sua paternità sublime.
In seguito, ho incontrato Marcello Candia altre volte e ogni volta mi appariva sotto questo aspetto: un “papà” straordinario, sempre di corsa, sempre pieno di pensieri e di preoccupazioni perché doveva provvedere alla sua grandissima famiglia. Un padre premuroso per centinaia di bambini, di poveri, di diseredati. E così fu sempre, fino alla sua morte, avvenuta nel 1983.
La vocazione a questa sublime paternità l’aveva avuta da bambino. Era un dono di Dio. Una chiamata che il Signore riserva ai grandi spiriti, spiriti capaci di contenere un amore enorme.
Era nato in una famiglia ricca. Suo padre, Camillo, laureato in chimica, nel 1906 aveva fondato la “Fabbrica italiana di Acido Carbonico”, che fece la fortuna della famiglia. La madre di Marcello, Bice Busatto, era una donna di grande fede religiosa. Più volte Marcello mi disse che erano stati i suoi genitori a educarlo nell’amore verso gli altri. Soprattutto la madre.
Quando era bambino, la mamma lo accompagnava nelle famiglie più disagiate a portare cibo, vestiti, denaro, medicine. Durante il liceo, frequentava la “mensa dei poveri”, tenuta dai padri Cappuccini a Milano, e aiutava i frati a distribuire la minestra ai “barboni ” della città.
A 17 anni venne colpito da un gravissimo lutto. Perse la madre, che morì per una polmonite. Il dolore lo sconvolse in maniera tremenda. Entrò in una profonda crisi depressiva. Si rifiutava di mangiare, non voleva più vivere. Trascorse un anno intero in uno stato di totale apatia. Smise anche di studiare. Ma poi quel brutto periodo finì. E in ricordo della bontà della madre, decise di dedicare la sua vita agli ideali di altruismo che lei gli aveva insegnato.
Pensava di diventare missionario. Prima, però, voleva concludere gli studi, perchè era convinto che con una laurea avrebbe servito meglio i poveri.
Nel 1939 si laureò in Chimica pura e un anno dopo in Farmacia. Poi scoppiò la guerra. Il suo sogno di diventare missionario dovette così aspettare. Nel 1941 fu chiamato sotto le armi, dove rimase fino al 1943. Nel frattempo continuava a studiare e nell’ottobre del ’43 conseguì la sua terza laurea, in Scienze Biologiche. Terminata la guerra, il padre si ammalò e Marcello dovette prendere in mano la direzione della ditta.
Si buttò a capofitto in questa nuova attività. Era un organizzatore formidabile, aveva una straordinaria capacità negli affari e sotto di lui, l’azienda paterna andava a gonfie vele.
Però Marcello non aveva dimenticato i suoi ideali. In attesa di potere realizzare la sua vocazione, si dedicava ai problemi missionari in altro modo. Già nel 1946, cioè l’anno stesso in cui assunse la direzione dello stabilimento del padre, istituì l’Associazione “Laici Aiuto Missioni”, un ente che si interessava di cooperazione con i missionari. Subito dopo fondò la rivista “La Missione”, che doveva far conoscere i problemi delle missioni. E sempre in quel periodo diede vita, a Milano, al “Villaggio della Madre e del Fanciullo”, per assistere le ragazze madri. Creò anche diversi centri di assistenza medica gratuita per i reduci dalla guerra e per i poveri, e corsi di medicina per missionari.
Nel 1950 conobbe padre Aristide Pirovano, un missionario originario di Como, che aveva fondato la missione di Macapà, in Brasile, alle foci del Rio delle Amazzoni. I due diventarono subito amici. Ascoltando i racconti del missionario, Candia cominciò a pensare seriamente di trasferirsi anche lui in Brasile. Decise che lo avrebbe fatto non appena la fabbrica fosse stata in grado di fare a meno della sua presenza.
Nel 1955, gli parve fosse giunto finalmente il momento tanto atteso. In Amazzonia era atteso dal suo amico padre Aristide Pirovano, che, proprio in quell’anno era stato nominato vescovo di Macapà.
Ma, mentre si stava preparando a dare la notizia ai suoi familiari, ecco un nuovo ostacolo. La notte del 22 ottobre 1955 il suo grande stabilimento chimico venne distrutto da un incendio. Decine di operai rischiavano di rimanere senza lavoro. Marcello capì che non poteva abbandonare quella gente nelle difficoltà. Rimandò ancora il suo viaggio. <<Ricostruiremo tutto>>, disse agli operai <<nessuno di voi resterà senza lavoro>>.
Si mise all’opera, con quella grinta e con quella incredibile resistenza alla fatica che lo distingueva. In dieci anni, lo stabilimento ridivenne un gioiello di efficienza e modernità. Adesso poteva andare avanti da solo. E, finalmente, nel 1965 Candia vendette tutto quello che aveva e partì per il Brasile.
La sua mentalità organizzativa gli fu utile anche in missione. Praticamente continuò a fare il manager, professione che conosceva bene e nella quale aveva ormai acquistato grande esperienza. Mise tutto il suo talento e tutto il suo denaro a disposizione delle missioni, dei poveri, dei lebbrosi che intendeva servire.
Per prima cosa, si dedicò alla costruzione di un grande ospedale, al cui progetto aveva cominciato a lavorare mentre era ancora in Italia. Quell’opera resta ancora oggi il massimo complesso ospedaliero dell’Amazzonia brasiliana. Lungo 160 metri, su due piani, l’ospedale ha una capacità di 160 posti. E’ dotato di clinica medica, ostetrica, pediatrica, chirurgica, di un gabinetto dentistico, una farmacia e di cinque ambulatori con un reparto d’analisi, un laboratorio dermatologico, una biblioteca medica e una scuola per infermieri.
All’interno si trova anche un centro di ricerca per malattie tropicali e infettive, collegato con la Facoltà di Medicina di Belo Horizonte. Quindi, un centro universitario.
In quell’ospedale, che lavora a pieno ritmo fin dall’inizio degli anni Settanta, vengono eseguite ogni anno migliaia e migliaia di visite mediche, di esami di laboratorio. Le infermiere e gli infermieri usciti dalla scuola di quell’ospedale, sono ormai diffusi su tutto il territorio della regione. Essi lavorano restando in stretto collegamento con l’ospedale, che li assiste ed è pronto a intervenire nei casi di emergenza.
Oltre all’Ospedale, ci sono in Brasile altre opere realizzate direttamente da Candia e altre ancora sono sorte dopo la sua morte, volute e gestite dalla Fondazione Marcello Candia che egli stesso costituì prima di morire proprio con lo scopo che si occupasse delle opere che aveva dato vita e di altre che risutlassero utili e necessarie per i suoi poveri.
Mentre organizzava, progettava e seguiva i lavori, Candia doveva anche preoccuparsi di trovare i soldi, non solo per la costruzione, ma anche per il funzionamento di quei centri. Marcello lavorava diciotto, venti ore al giorno. Ogni anno tornava, per alcuni mesi in Italia, per raccogliere fondi, per tenere conferenze. Si sottoponeva a sfibranti maratone alla ricerca di aiuti. E così i viaggi, i continui cambiamenti di clima, i disagi, le fatiche si fecero sentire. Marcello cominciò ad accusare disturbi al cuore. I medici gli dicevano che doveva riposarsi e lui rispondeva che i suoi poveri avevano bisogno di lui. Continuò perciò la sua attività, senza mai diminuire il ritmo frenetico. Ebbe cinque infarti. Nel 1977, fu sottoposto ad una delicatissima operazione chirurgica nel corso della quale gli vennero applicati tre by-pass. Ma neanche quell’intervento lo fermò.
Lavorava per amore di Dio e non voleva ricompense su questa terra. Nelle sedi missionarie, non voleva essere trattato con nessuna distinzione. Anche quando era molto ammalato, mangiava quello che mangiavano i suoi assistiti e non si lamentava mai. Terminata un’opera, la regalava a un istituto religioso. Non voleva avere legami con essa. Non voleva cioè esserne il “proprietario”, il “direttore”, il “responsabile”. Regalò il grande ospedale di Macapà, ai padre Camilliani, che lo nominarono, contro la sua volontà, “presidente onorario”. <<E’ un titolo che non mi piace>>, diceva, <<ma poiché il cinquanta per cento degli ammalati che vengono curati ogni anno non ha soldi per pagare e non ha assistenza sociale, io, come presidente onorario, mi impegno a coprire i loro debiti>>.
Quando Giovanni Paolo II, nel 1980, andò in Brasile, volle visitare il lebbrosario di Mariturba, che è una delle grandi opere realizzate da Marcello Candia. Il lebbrosario era diretto da monsignor Pirovano che, durante la visita, illustrava l’opera al Papa e gli presentava i missionari e le varie autorità. Il Pontefice continuava a guardare in giro e, ad un certo momento, disse a monsignor Pirovano: <<Ma, insomma, dov’è il dottor Candia di cui ho tanto sentito parlare?>>. E allora tutti si guardarono intorno e si accorsero che Marcello Candia, l’autore di quelle belle opere a favore dei lebbrosi, non era nel gruppetto delle personalità che erano state presentate al Papa. Lo cercarono. Marcello era dietro a tutti, che conduceva la carrozzella di un lebbroso, un uomo senza mani e senza piedi, orribilmente mutilato anche nel viso. Candia aveva un ventaglio in mano e lo agitava intorno a quel povero troncone umano, per alleviare il fastidio del caldo che in quel momento raggiungeva i 45 gradi all’ombra. Il lebbroso, dato che era senza mani, non poteva usare il ventaglio. Quando il Papa li vide, capì quanto fosse grande la bontà e la delicatezza d’animo di Marcello. Gli andò incontro senza dire una parola per la commozione. Lo abbracciò e gli diede un bacio sulla fronte.
<<Il povero più povero è colui che non riesce a farsi ascoltare da nessuno>>, mi disse un giorno Marcello Candia. <<Quando sono andato in Amazzonia, con molti soldi e grandi capacità organizzative, pensavo che il più grande regalo che potevo fare ai poveri fosse appunto il denaro e la mia professionalità. Poi mi sono accorto che c’è qualcosa che vale di più: è il dono del tuo tempo, della tua attenzione alle persone, della tua amicizia, perché in questo modo non dai “del tuo”, ma “dai te stesso”. Quello che vogliono i poveri non è solamente cibo, assistenza, aiuti materiali. Desiderano soprattutto comprensione, fraternità, essere ascoltati>>.
Marcello dormiva pochissimo: quattro, cinque ore al massimo. Al mattino si alzava alle cinque e trascorreva alcune ore in chiesa, a pregare e a meditare. Benché fosse un laico, dedicava alla preghiera molte ore al giorno.
Una suora, sua collaboratrice, mi disse: <<Marcello parlava di Dio come di una persona che conosceva bene e incontrava tutti i giorni>>. Nelle difficoltà più gravi, prima di prendere una decisione particolarmente importante, spariva per alcuni minuti. I suoi collaboratori sapevano che si ritirava a pregare. La sua fiducia in Dio era totale. La sua fede era simile a quella che un bambino ripone nel padre.
La sua grandezza spirituale, l’autenticità della sua fede profonda sono balzate in evidenza al momento della prova suprema, quando ha saputo che doveva morire. Marcello seppe di avere un cancro nel 1981, cioè due anni prima di morire. I medici gli dissero la verità, ma egli volle continuare a vivere come sempre, senza parlare con nessuno della sua malattia. Solo nell’agosto del 1982 si confidò con suor Giovanna, una sua collaboratrice, raccomandandole però il segreto più assoluto. <<Se il Signore mi vuole prendere>>, disse <<continuerà lui le mie opere. Io intanto lavorerò come se dovessi vivere per sempre>>.
Ha continuato la sua missione, spostandosi da un luogo all’altro, tra sofferenze incredibili fino a venti giorni prima della fine. Da tempo non riusciva a mangiare e a bere. Vomitava tutto. Si reggeva in piedi con la volontà. Quando si rese conto che tutto era finito, prese l’aereo e tornò in Italia. Fece un viaggio allucinante. Giunto a Parigi, dovette essere condotto al pronto soccorso. Volevano trattenerlo, ma ripartì. A Milano venne ricoverato nella clinica Poi X, dove trascorse gli ultimi venti giorni della sua vita.
E’ morto proprio come un santo. Il cancro al fegato provocava dolori tremendi, ma egli sopportava tutto senza mai lamentarsi. Gli infermieri, i medici non riuscivano a rendersi conto come facesse a resistere senza gridare, urlare, disperarsi. Al suo amico, don Peppino Orsini, che era il suo direttore spirituale confidò: <<Oggi Gesù mi ha fatto vivere l’esperienza più bella della mia vita e mi ha fatto capire che non è sufficiente pregare il Signore: più importante è accettare con umiltà e disponibilità il dolore, come e quando Dio lo permette. Sapevo che esisteva il dolore, ma nella mia ignoranza e nella mia vanità non l’avevo mai vissuto veramente: accettare la sofferenza come Dio la manda, accettarla con gioia, perchè il Signore la dà soltanto per il nostro bene, è la cosa più bella e più importante>>.
Sul suo letto di dolore pregava continuamente. Pensava però alle sue opere in Brasile. Pochi giorni prima di andarsene, disse a un amico: <<Se il Signore mi chiedesse consiglio, gli direi di lasciarmi qui ancora per un po’. Avrei tante cose da fare. Ma se egli mi chiama, sono pronto a spegnere la luce>>.
Morì mercoledì 31 agosto 1983, alle 17.30.
Il 12 gennaio 1991, il Cardinale Carlo Maria Martini, arvivescovo di Milano, aprì il processo diocesano per la causa di canonizzazione di Marcello Candia, che si è concluso l’8 febbraio 1994. E’ ancora in corso la seconda fase del processo, quella presso la Congregazione dei Santi in Vaticano.
Renzo Allegri
Tutti i libri su Marcello Candia sono disponibili su AMAZON.IT