Il 27 luglio 1915, a Firenze, nasceva Mario Del Monaco, uno dei più celebri tenori di tutti i tempi. Dotato di una voce potente, che sapeva usare con intelligenza, è morto il 16 ottobre 1982, a 67 anni, ma il suo ricordo resta vivissimo tra gli appassionati di lirica.
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Mario era un artista poliedrico: cantante lirico, pittore, attore cinematografico e anche scrittore. Lo incontrai diverse volte per articoli e interviste. Posso dire di essere stato un suo amico. Parlare con lui era un’esperienza emozionante. Non solo per la ricchezza straordinaria delle esperienze che aveva vissuto, ma perché le raccontava con un entusiasmo e una passione coinvolgenti. E voglio ricordarlo riferendo parte dell’ultima intervista che gli feci nell’aprile del 1982, sei mesi prima della sua scomparsa.
Era sofferente da tempo. Una brutta malattia renale lo aveva costretto a troncare una carriera ancora fulgida. Ma anche da ammalato dimostrava sempre una vitalità e una forza d’animo eccezionali. «All’inizio la malattia mi aveva abbattuto», mi disse. «Non potendo più cantare, mi sentivo come menomato e non volevo più vivere. Poi ho ripreso a combattere, mi sono dedicato ad altri interessi>>.
Lo incontrai nella sua villa di Lancenigo, alla periferia di Treviso. Le grandi stanze erano silenziose. Mario era seduto di fronte a una finestra, e guardava la luce nebbiosa del tramonto. Vicino a lui, suo fratello Marcello e la nipote Donella. Non c’era la moglie, la mitica Rina. <<Purtroppo, la sfortuna continua ad accanirsi contro di me>>, mi disse triste. <<Rina è ammalata, è all’ospedale, e senza di lei mi sento perduto».
Appariva abbacchiato. Forse la malattia si era acuita, sarebbe morto infatti sei mesi dopo. Certamente sentiva che la vita gli stava fuggendo. E rileggendo la lunga intervista che gli feci quel giorno, mi rendo conto che aveva coscienza di essere alla fine. Continuava a parlare della famiglia, degli amici, dei colleghi, e ricordava non tanto i successi, ma i giorni tristi della giovinezza, le difficoltà che aveva dovuto superare per affermarsi. Non era il grande divo che illustrava i suoi trionfi, ma l’uomo fragile e sofferente, preoccupato per la moglie all’ospedale. Conversando toccava vari argomenti, che finivano sempre confluendo su Rina, la donna che gli era stata sempre accanto e che in quel momento gli mancava moltissimo.
«Nella famiglia Del Monaco l’arte è una malattia contagiosa», mi disse indicando il fratello e la nipote. «Marcello, dopo aver dedicato tanto tempo a inse¬gnare canto, è tornato al primo amore, la letteratura, e sta per pubblicare un libro di poesie; Donella esordirà tra breve nell’opera lirica. Anche mia moglie è un’artista: da giovane cantava e avrebbe senz’altro fatto un’ottima carriera, ma rinunciò per seguire me; comunque è una bravissima insegnante di canto>>
Sorrise un po’ triste e tornò a parlare del fratello: «Marcello ha qualche anno meno di me, ma cominciò a studiare musica per primo. I nostri genitori ave¬vano deciso che fosse lui a diventare cantante, mentre io dovevo dedicarmi alla pittura. Marcello riusciva molto bene in pianoforte e composizione. Amava, però, anche la letteratura. Un giorno mi disse: “Mario, quando sarò compositore, delle mie opere voglio scrivere non solo la musica ma anche i libretti”. Si chiudeva giorni interi nella sua stanza a scrivere poesie. Le sue liriche erano così belle che furono musicate anche dal suo professore di composizione:
«A un certo momento la passione per la letteratura ebbe il sopravvento sulla musica. Dopo la guerra, Marcello si laureò in lettere e continuò a dedicarsi alla poesia. Pubblicò due libri, vinse premi e concorsi, le sue poesie furono lette alla radio, pubblicate in antologie. Quando io divenni famoso, molti giovani, che volevano seguire la mia stessa carriera, mi chiedevano consigli e io li mandavo da Marcello. Così, mio fratello fu di nuovo coinvolto nella lirica e in poco tempo divenne uno degli insegnanti di canto più famosi del mondo. Dalla sua scuola sono usciti almeno una quarantina di validissimi professionisti che cantano nei teatri più prestigiosi. Qualche anno fa, Marcello si è messo in pensione, e ha ripreso a scrivere poesie>>.
Donella, figlia di Marcello, seguiva la conversazione in silenzio. Era allora una ragazza estroversa e attivissima. Solitamente lasciava poco spazio agli interlocutori, ma quando parlava lo zio, per il quale aveva una autentica venerazione, pendeva dalle sue labbra. Laureata in architettura, era nota agli appassionati di musica e d’avanguardia, perché aveva fondato , un complesso sperimentale con cui teneva serate in giro per l’Italia, alla televisione, e aveva anche inciso due LP. Dalla musica pop era poi passata a quella classica d’avanguardia. Aveva interpretato composizioni alla Biennale di Musica di Venezia, al Maggio Musicale di Firenze, alla radio. Si era anche interessata di teatro, di scenografia, di regia. E infine era approdata anche lei nel mondo artistico del padre e dello zio, e si era messa a studiare lirica. «Donella ha un’ottima voce di soprano lirico», disse Mario Del Monaco. «Farà una brillante carriera».
E il discorso tornò subito alla moglie. <<Quando iniziai la carriera, avevo una voce piccola. Gli insegnanti mi davano consigli che risultavano inutili. L’unica che mi ha aiutato è stata mia moglie. Sono diventato Mario Del Monaco soprattutto grazie a lei, ma quanti sacrifici, quante umiliazioni, quante sofferenze!. Lei credeva profondamente in me. Voleva che riuscissi a qualunque costo. Se fosse dipeso da me, mi sarei accontentato di cantare il sabato e la domenica in qualche teatro di periferia. Ma Rina aveva capito le mie possibilità e si è battuta come un leone perché le realizzassi>>.
Gli dissi: <<Lei è stato uno dei più grandi tenori di tutti i tempi” e volevo aggiungere che era una autentica leggenda del mondo lirico, ma mi interruppe con un potente pugno sul tavolo, gridando in dialetto veneto: << “Mi son!!”. E dopo alcuni attimi di silenzio aggiunge: << “Mi son” e non “sono stato”. Mario Del Monaco non va mai in pensione. Seguo tutto, e continuo ad essere in attività, anche se non canto. Sono direttore della scuola di perfezionamento di canto lirico di Passariano, dove insegna anche mia moglie; seguo l’attività musicale sui giornali, alla televisione, alla radio, attraverso la produzione discografica. Molti colleghi, miei coetanei o più giovani, mi telefonano, e vengono a trovarmi per aver consigli. Sono spesso intervistato da giornalisti e critici, e parlo chiaro con tutti, come ho sempre fatto. Dopo una edizione di “Aida” diretta da Karajan e interpretata da un tenore che va per la maggiore, la televisione tedesca mi ha chiesto un giudizio. Ho risposto: “Sembrava di sentire Nemorino a Tebe”. Nemorino, protagonista di “Elisir d’amore”, è un tenore di grazia, mentre Radames in Aida richiede una voce possente, da guerriero. Purtroppo, di queste voci, oggi non ce ne sono più».
«Da che cosa dipende?», chiesi.
«E’ difficile dirlo. Forse dal cambiamento di vita, dal progresso. Il benessere toglie grinta e volontà alle persone. Gli uomini sono sempre stati forgiati dalle difficoltà, dalle sofferenze. La natura può offrire doti vocali meravigliose, ma è lo studio e l’esercizio quotidiano che le affinano, le plasmano, le preparano alle grandi imprese.
«I giorni più terribili della mia vita li trascorsi a Milano, durante la guerra. Ero militare. Vivevo con mia moglie in un abbaino. Non avevamo né soldi, né amici, né prospettive per l’avvenire. Per mangiare qualcosa andavamo in una modesta trattoria nei pressi di corso Buenos Aires: era un ambiente frequentato da povera gente. In un angolo, c’era una pedana con un pianoforte. Chiunque poteva esibirsi. Se eri bravo, ti davano una scodella di minestrone. Quante volte, accompagnato al pianoforte da mia moglie, cantai in quella trattoria. I frequentatori mi avevano preso in simpatia. “Suldà, ven chi”, dicevano, mi invitavano alla loro tavola e mi offrivano salsicce e bicchieri di Barbera.
«Nell’esercito facevo il camionista. Si partiva alle tre, quattro del mattino e si tornava spesso nel cuore della notte. D’inverno si moriva di freddo. Spesso avevo le dita piagate dai geloni. Quando tornavo a Milano, qualsiasi ora fosse, correvo all’abbaino, da mia moglie, e trovavo sem¬pre pronto un piatto di minestra calda. L’amore e le premure di Rina rendevano quell’abbaino meraviglioso. Ma quante capocciate contro il soffitto!
Dimenticavo sempre che non si poteva stare ritti in piedi dappertutto.
«Se in teatro ho fatto delle interpretazioni valide, che hanno commosso ed entusiasmato il pubblico di tutto il mondo, lo devo a quella vita di miseria, di povertà, di disperazione e insieme di amore autentico. E’ stata una scuola irrepetibile. Quando facevo Rodolfo, nella Bohème, ero convincente perché avevo vissuto come Rodolfo e sapevo che cosa passa nel cuore di un giovane in quelle condizioni.
«Chi fa più queste esperienze? Adesso gli artisti appena cominciano a cantare e dimostrano di avere qualche qualità arrivano ai grandi teatri, alla Scala, alle case discografiche, alla televisione, e guadagnano milioni. Parlando con loro e sentendoli cantare, capisci che non hanno dentro rabbie, rancori, sofferenze, umiliazioni. Sembrano tranquilli ragionieri attenti soprattutto a organizzare la carriera per accumulare guadagni. Non proprio tutti sono così, ma la grande maggioranza».
«Dei colleghi con i quali ha cantato, chi ricorda con maggior affetto?».
«Tutti. Erano persone eccezionali, infatti si continua ancora oggi a parlar di loro. Nessuno ha dimenticato Di Stefano, Tagliavini, Bechi, Gobbi, Stabile, Bastianini, la Barbieri, la Simionato, Pasero, Siepi, la Tebaldi, la Callas.
«Renata Tebaldi è stata l’artista con la quale ho cantato di più. La conobbi a Pesaro quando studiava al Conservatorio. Ero amico dei suoi pa¬renti e una sera la fecero cantare per me, perché dessi un giudizio sulla sua voce. Cominciammo a lavorare insieme nel 1946, e conti¬nuammo sempre. Eravamo legati alla stessa casa discografica, per la quale non so quante opere complete abbiamo inciso>>.
«E Maria Callas?».
«Altra grandissima, altro fenomeno. Tebaldi e Callas sono due mondi diversi. E’ assurdo pensare di fare dei paragoni. Conobbi la Callas a Roma, alla fine del ’47, in casa del maestro Tullio Serafin, che volle farmela ascoltare. Maria non aveva una bella voce, ma cantava con una precisione strumentale, una facilità e una naturalezza da far venire i brividi. Con la sua voce poteva fare quello che voleva. In certe arie sembrava dieci violoncelli.
«Cominciai a cantare con Maria nel ’49, in Argentina. In Sudamerica, Maria fece una Norma eccezionale. Nell’autunno dell’anno successivo, mentre a Milano discutevo con i dirigenti del Teatro alla Scala (Ghiringhelli, Oldani, De Sabata), sul programma della stagione, dissi: “Perché non facciamo Norma?”. “Ci manca la donna”, rispose Ghiringhelli. “La donna c’è, Maria Callas”, dissi io. De Sabata e Ghiringhelli si misero a ridere. “Per carità, non parliamone. In agosto, qui alla Scala, la Callas ha fatto un’Aida inesistente. E’ grassa, brutta, si veste male e ha una voce sgradevole”. Non volevano neppure sentirla nominare. Cinque anni dopo, quando Maria era diventata la regina del teatro milanese e alla Scala non si faceva niente che lei non volesse, ricordai a Ghiringhelli e De Sabata il loro giudizio del 1950. Antonio Ghiringhelli si mise le mani tra i capelli e disse: “Per l’amor di Dio, che non si sappia. Quel giudizio non ha nessun valore”».
«E’ stato scritto che lei e la Callas, in palcoscenico, spesso litigavate accanitamente».
«Molto di quello che è stato scritto era esagerato», dice Mario Del Monaco. «Però è vero che quando io e Maria cantavamo insieme era una lotta continua. Lei era la Callas, ma io ero Mario Del Monaco. Maria voleva primeggiare da sola, ma io non glielo permettevo. Le nostre recite erano guerre spaventose. La Callas aveva un carattere battagliero, e non cedeva il passo a nessuno. Per tenermi testa in certi duetti, si sformava. Emettevo dei potenti mi bemolle, e lei voleva rivaleggiare ad ogni costo.
«Quando arrivava in un teatro, pretendeva che tutti fossero ai suoi piedi. Alla fine di ottobre del ’56 venne a New York, per debuttare al Metropolitan in Norma. Volle fare un arrivo da regina e i dirigenti del teatro l’assecondarono. Andarono compatti a prenderla all’aeroporto. C’erano Rudolf Bing, Max Rudolf, Francis Robinson, con un stupenda limousine guidata da uno chauffeur in livrea. Riguardi del genere non erano mai stati riservati a nessun artista, e non ero disposto a lasciar correre.
«II giorno dopo, alle 10,30, c’erano le prove di “Norma”. . Non mi presentai. Alle undeci squillò il telefono nella mia camera al Buckingham Hotel. Rudolf Bing, sovrintendente del Metropolitan, mi chiese che cosa fosse accaduto. “Sono sei anni che lavoro al Metropolitan”, risposi con rabbia. “Faccio trenta, quaranta recite l’anno, sono una colonna del teatro, e non siete mai venuti a prendermi all’aeroporto con la limousine. Arriva una diva che canta qui per la prima volta, e andate a riceverla come una regina. Non mi sta bene. Se volete che venga alle prove, dovete venire a prendermi con la limousine guidata dallo chauffeur con gambali e berretto”, e chiusi la conversazione.
«Al Metropolitan si provava fino alle 12,30; c’era poi un intervallo di un’ora, quindi si ricominciava. Alle 12,30, Rudolf Bing mi chiamò di nuovo al telefono e disse: “La limousine sta arrivando al suo albergo, come lei ha chiesto”. Al Buckingham Hotel alloggiavano tutti gli artisti impegnati al Metropolitan e a quell’ora molti erano nella Hall. l. Quando il portiere mi avvertì che era arrivata l’automobile, la feci aspettare. Tutti si chiedevano per chi fosse quella lussuosa limousine, e stavano lì a vedere quale personaggio avesse il privilegio di essere trattato con tale riguardo. Lasciai che la curiosità aumentasse, poi scesi. Salutai i colleghi e salii sulla macchina. Il giorno dopo tutti sapevano che anche Mario Del Monaco, come Maria Callas, poteva servirsi della limousine del Metropolitan.
«Se tornassi indietro», continuò Mario Del Monaco «non mi comporterei più così. Sarei più cauto, più umile. Erano battaglie che facevano male, alimentavano odi, amareggiavano la vita. Fortunatamente, Maria era una donna intelligente. Fuori dal palcoscenico non mi portava rancore. Nel gennaio del 1970 la incontrai a Roma, per la “prima” del film Medea, che aveva interpretato per la regia di Pasolini. Non ci vedevamo da diversi anni, e Maria mi venne incontro con le braccia aperte e le lacrime agli occhi. “Oh Mario, Mario mio”, ripeteva. Mi abbracciò con tanta tenerezza, e mi commossi anch’io. Parlammo a lungo. Ricordava sempre il passato: “I nostri tempi, che vita abbiamo fatto”, diceva. Mi prendeva le mani e le accarezzava. Mi disse: “Noi siamo fratelli, abbiamo lo stesso nome”, e mi spiegò che Kalageropoulos, in greco, significa “Monaco”. Un artista che ha vissuto, sofferto, lottato con donne come la Tebaldi e la Callas non può entusiasmarsi per le altre. Seguo le nuove “stelle” della lirica a teatro, alla televisione, sui giornali. Sono brave, ma non ho ancora trovato chi possa prendere il posto delle mie grandi primedonne>>..
Renzo Allegri