Lourdes, la banalità del bene
Fare un film sulla disabilità è complicato. È difficile non cedere a sentimentalismi, alla compiacenza e alla rassicurazione dello spettatore. È difficile raccontare una specifica condizione esistenziale. Come ogni forma d’arte ed espressiva (e di là delle stime commerciali non trascurabili dalla progettazione agli esiti di critica e pubblico), il cinema resta per me uno strumento culturale, se la narrazione è capace di suscitare domande, muovere riflessioni e analisi, costruire immaginari, individuare chiavi di lettura, prendere posizione.
Con questo spirito, circospetto, lo ammetto, quando si parla di cinema (che, spesso, mi pare un ben costruito prodotto commerciale dell’industria dell’intrattenimento) e disabilità (i cui modi di raccontarla raramente mi hanno soddisfatto), ho visto Lourdes della regista J. Hausner. Il film, già presentato al festival di Venezia, uscito da poco, è stato premiato da critici cattolici e atei e ben accolto da molti quotidiani.
Dato lo stile essenziale e le riprese in stile documentario, gli studenti delle superiori (per i quali sono previste proiezioni), le persone poco esperte di pellegrinaggi e del mondo della disabilità sono messi di fronte a situazioni tipiche: dinamiche, riti, attese, economie del pellegrinaggio; le solitudini di chi ha una disabilità (la protagonista e i motivi del suo pellegrinaggio, il ragazzo mollato dalla fidanzata dopo l’incidente invalidante, l’anziano che si sentirà nuovamente solo tornato a casa); i rancori e la rabbia (perché a me?), le speranze, le gioie, gli scetticismi della guarigione. Sono inoltre mostrati i tanto umani rancori, gelosie, indifferenze, piccinerie non di rado presenti nelle vite di parrocchie, partiti, associazioni e movimenti di varia natura. È uno sguardo quasi sociologico, a tratti ironico, che mostra sfaccettature diverse e contraddittorie. Ma nel farsi specchio di questa realtà non prende posizione. Forse per questo ha accolto consensi, non scontenta nessuno.
Scontenta invece il modo di presentare la disabilità. Tra le difficoltà (dell’handicap e di vite sociali relegate ai margini), solitudini e tristezze, la profondità esistenziale si riduce alla miserevole e disabilitante condizione fisica, ai rancori (“perché a me e non a qualcun altro”, dice la protagonista) risolte con la speranza affiancata da caritatevoli e distratte attenzioni dei volontari del luogo.
Ancora una volta, la disabilità non è una complicata realtà che ci interroga profondamente, ma una condizione di cui essere tristi vittime o da cui emanciparsi, magari attraverso un fortuito e inopinato miracolo. Le volontarie pregano sul letto della protagonista come se fosse una defunta; i disabili del film sono dei “morti viventi” rivitalizzati solo dalla speranza del miracolo. Solo dopo essere guarita, la protagonista comincia ad avere progetti di vita; ora puoi farti una famiglia, le si dice. Senza miracoli, veri o presunti, senza la speranza o l’illusione di potersi liberare dalla menomazione, chi è disabile continua ad essere, per se stesso e per gli altri, uno sfortunato poverino.
Dal Blog di Matteo Schianchi – Il Trailer Italiano
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