Quel vivere che sembra un vivere per niente
Quel vivere che sembra un vivere per niente
(di Stefano Andreoli)
Ambientato a Saonara, un piccolo Comune vicino Padova, il libro di Eleonora Buratti “Le stagioni diverse” (da un’idea di Pierluigi Donà) narra la storia di una giovane neolaureata padovana che intraprende uno stage di un anno presso la Cooperativa Sociale Il Glicine. Incaricata dal presidente Pierluigi Donà di sistemare l’archivio, Paola trova tra le carte la vecchia agenda di Pierluigi, sorta di diario ove egli ripercorre il proprio vissuto giovanile fino alla fondazione della Cooperativa. Il passato (prossimo) di Pierluigi si sovrappone al presente (appena passato) di Paola, in un “racconto nel racconto” nel quale ognuno dei due, con toni e registri diversi, svela senza alcuna retorica del “diverso” il proprio personale incontro con la disabilità mentale. Quella che segue, più che una recensione, è una serie di impressioni sul libro di un ex obiettore di coscienza della UILDM (Unione Italiana Lotta alla Distrofia Muscolare), nate anche a partire dalla propria esperienza personale.
Nell’aprile del 1994, quando nasce sotto forma di ONLUS Il Glicine di Saonara (Padova), avevo da poco iniziato a fare l’obiettore di coscienza in un’altra ONLUS operante nel campo della disabilità fin dal 1961, l’Unione Italiana Lotta alla Distrofia Muscolare (UILDM).
Pur non occupandosi di malattie mentali, la Sezione UILDM di Padova si trovava (e si trova ancora adesso) in un’ala dismessa dell’ex Ospedale Psichiatrico dei Colli, una struttura enorme divisa da vialetti progressivamente riconvertita in altre attività. I manicomi, però, sono come le centrali nucleari e decidere la loro (sacrosanta) chiusura non equivale a cessarne immediatamente l’attività, cosicché nel ’94, a sedici anni dall’approvazione della Legge Basaglia, di “matti” ne incontravo parecchi percorrendo il viale che conduceva alla UILDM.
In quella strada c’era anche il bar, ovviamente affollatissimo a qualsiasi ora del giorno; come in una sorta di osmosi olfattivo-gustativa, il sapore del caffè e del cappuccino avevano assorbito l’odore di stantio e di decrepito delle mura, che per altro, viste da lontano, rivelavano, nella loro storia secolare, un edificio di un certo pregio architettonico. O forse, più semplicemente, a chi aveva in gestione il bar non fregava molto di preparar bene caffè e cappuccini, tanto «ai mati ghe va ben tuto» e poi le bevande più gettonate rimanevano quelle gassate, con ruttate di fantozziana memoria.
Una volta, mentre aspettavo l’ordinazione, mi si avvicinò uno di loro, alto-magro-anzi magrissimo-capelli bianchi corti-barba incolta-viso rugoso: «Bongiorno profesoredotore», mi disse irritato, ma composto. «Non sono dottore». «Xèo maestro?». «No, non sono maestro». «Insoma, lavòreo quà?». Taglio corto e rispondo di sì; sicuramente – penso – mi farà la solita infantile richiesta di dolci, sigarette o altro che l’ospedale certo non gli passa. Invece con disarmante lucidità mi dice: «Ma a eo, ghe pare giusto che mi gabia da stare sarà quà drento?».
Ironia del dialetto, in veneto la parola gabia ha due significati: nella frase anzidetta si può tradurre come “che io debba”, mentre come sostantivo vuol dire invece proprio “gabbia”. Due significati che curiosamente finiscono col sovrapporsi: la modalità coercitiva del “dovere”, della costrizione, nella gabbia dell’istituzione totale, il cui tratto peggiore è quello di togliere alla persona ogni ipotesi di futuro, di progettualità; l’idea che in un muro non si possano ricavare né finestre né porte.
Quelli che non finivano allo Psichiatrico continuavano a rimanere in famiglia, segregati tra le mura domestiche, come capitava fino a non molti anni fa a Saonara, il Comune padovano con il più alto numero di vivai e con la più alta percentuale di disabili psicofisici di tutti quelli contermini. E forse il primo dato può spiegare il secondo, nel senso che l’inquinamento ambientale provocato dall’impiego degli anticrittogamici può avere causato danni al feto delle lavoratrici incinte.
Si usava chiamarli desgrassià (“disgraziati”), «termine che vigliaccamente faceva riferimento alla grazia di Dio, lasciando intendere che queste persone ne fossero escluse». Un termine che rispecchia la contraddizione di certa religiosità veneta: l’essere cristiani ma senza pietas, fedeli in Dio purché a immagine e somiglianza di un preciso modello biologico e razziale e purché escluda dalla propria grazia tutto ciò che è altro da noialtri.
E proprio da un luogo-simbolo della fede comincia il racconto di formazione sentimentale di Donà, che quattordicenne fa la sua prima esperienza da volontario a Lourdes: «E l’unica cosa che riuscii a chiedere alla Madonna fu la forza di sopportare tutto quello che mi passava davanti: persone deformi, esseri che mi ricordavano animali, uomini senza gambe, corpi privi di arti, gente che piangeva e si disperava e una marea di preti e di suore che correvano in ogni dove». Un’esperienza generosa, quella di Pierluigi adolescente, confusa ma cruciale al tempo stesso: «Lourdes è una pacca sulla spalla che ti dà la Madonna per infonderti coraggio; è la sua voce silente che dice: vai avanti!».
Anch’io durante il Servizio Civile ho conosciuto disabili che da bambini sono stati portati a Lourdes e immersi nell’acqua, ma dopo quarant’anni, tutti passati in compagnia della distrofia muscolare, è rimasta loro la sensazione di aver ricevuto dall’alto non tanto una pacca sulla spalla, ma una pacca e basta.
Non voglio apparire irrispettoso riducendo Lourdes a una sorta di “referendum sul miracolo”; lo stesso Donà la definisce un’esperienza che non si può raccontare e «il miracolo più grande di tutti è quella sofferenza che la gente riesce a sopportare». Però, per una volta tanto, mi piacerebbe che oltre alle testimonianze individuali, riuscissimo a riflettere sul peso che Lourdes – assurta a paradigma per eccellenza della sofferenza – ha giocato nell’immaginario popolare sulla disabilità e nella costruzione – tanto per rimanere in Veneto – dello stereotipo del puareto (variante pietistica del desgrassià), ossia del “povero di cervello”, del minus habens.
Alimentare un’agiografia del dolore ha creato a livello di massa un cortocircuito in base al quale l’immagine di un disabile è immediatamente associata all’idea di benevola compassione da un lato e di incapacità di autonomia, fisica e mentale, dall’altro. Un’immagine che non va esattamente nella direzione – dignità e vita indipendente – rispetto alla quale si battono da più di vent’anni le associazioni e le realtà come Il Glicine, con il lavoro, la socializzazione, il divertimento, la creatività.
Infatti, negli anni Ottanta la difficoltà maggiore era convincere i genitori ad affidare il proprio figlio disabile a figure diverse da quelle della cerchia familiare. Donà ricorda la prima esperienza nell’aprile del 1987, una vacanza di tre giorni sul Nevegal (Belluno), con sette disabili e quattordici operatori: «La naturalezza con la quale quei ragazzi affrontavano la loro complicata quotidianità non l’avevo mai vista in nessun altro essere umano. Pareva fosse la stessa spontaneità di quei fili d’erba che crescono ai bordi delle strade nonostante l’asfalto».
C’è molta diffidenza da parte delle famiglie e le adesioni sono poche, ma l’episodio costituisce una breccia; negli anni successivi la fiducia aumenta, le richieste al gruppo di volontari cominceranno a crescere: nasce così nel 1994 l’Associazione Il Glicine che dieci anni dopo diventerà Cooperativa Sociale, con in gestione una Casa Famiglia (undici ospiti) e un Centro Diurno (sedici utenti).
Eleonora Buratti è pubblicista e scrittriceInfine, cito per ultima Eleonora Buratti, autrice del libro Le stagioni diverse: è lei che raccoglie le “riflessioni del capobranco Donà” all’interno del racconto-cornice della propria esperienza di stagista neolaureata, incaricata di sistemare l’archivio del Glicine. La narrazione di Buratti non è di mero raccordo con quella di Donà, essa fa anzi da contraltare, nel senso di fornire al lettore un punto di vista diverso. Cioè quello di una persona che per la prima volta è venuta in contatto con una realtà sconosciuta e registra le proprie impressioni con sincerità e onestà intellettuale.
Eleonora osserva questo mondo di “personaggi in cerca d’autore” e a ognuno assegna una maschera: il figlio del vento, la donna dal pianto continuo, la donna dal viso allungato, l’uomo divertito davanti al televisore spento, il computer, l’artista, la vanitosa, la ballerina solitaria, il disoccupato. Non cela al lettore le proprie difficoltà, fosse anche la descrizione dello schifo provato durante un pranzo con i “tosi”: «La sua abbondante salivazione [della donna dal viso allungato], alimentata dall’avvicinarsi del cibo che stava spargendo il suo aroma nell’aria, straripava dalla bocca e passava attraverso i denti ingialliti raggiungendo a tratti il mio viso, il mio piatto e le mie posate avvolte da un tovagliolo di carta. Provai disgusto sentendo che una goccia di quella saliva si era fermata sul mio labbro. Serrai la bocca sigillandola e mi passò d’un tratto l’appetito».
Col tempo Eleonora scopre però anche ciò che c’è dietro la maschera: «I disabili, non li riuscivo a percepire nella loro corporeità. Nel mio immaginario restavano attori di una parte che non prevedeva alcun risvolto intimo o fisiologico. Erano i tosi del Glicine, che vagavano nel soggiorno col camino in attesa della colazione. Erano quelli che decoravano oggetti di ceramica e dormivano su divano abbracciati dopo aver consumato un pranzo. Erano i “disabili psichici” e nulla dovevano c’entrare col sesso. Come se una ripartizione divina avesse previsto per gli altri qualcosa di cui loro non dovevano godere. Mi accorsi di averli etichettati, forse ghettizzati e me ne vergognai».
L’incontro con il mondo dell’handicap fisico o psichico è un filone letterario che da circa vent’anni si comporta come un “fiume carsico”: ogni tanto riappare in superficie e ci regala titoli come Più leggero non basta di Federico Starnone, Fermati tanto così di Matteo B. Bianchi, El coche di Sergio Saviane, Centro di igiene mentale di Simone Cristicchi. Opere scaturite dalle esperienze dirette dei loro autori, che nella pagina scritta hanno saputo dare una cifra stilistica alla testimonianza, evitando di ridurla a banale memorialistica.
Pochi testi, ma buoni ai quali si può senz’altro aggiungere Le stagioni diverse.
CREDITS
Eleonora Buratti (da un’idea di Pierluigi Donà), Le stagioni diverse. Quel vivere che sembra un vivere per niente, Verona, Scripta Edizioni, 2009, 200 pagine, 15 euro.
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