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Dio non ci chiede di essere dei “super eroi”

Parolin a #Lourdes: Dio non ci chiede di essere dei “super eroi”

«Dio non ci chiede di essere dei “super eroi”. Non chiede neanche di negare che stiamo vivendo delle difficoltà», magari «indossando la maschera di un uomo o di una donna “superiore” a ciò che lo umilia o limita. Dio ci chiede di dargli credito e di fidarci di lui». Il cardinale Pietro Parolin, legato papale a Lourdes per la celebrazione della venticinquesima giornata mondiale del malato, ha offerto quest’immagine di consolante certezza alla folla di fedeli radunati nella cittadella mariana.

Il Segretario di Stato ha presieduto la celebrazione della messa internazionale sabato mattina, 11 febbraio, rilanciando l’esortazione a «non avere paura» perché il Signore «si fa vicino, non ci dimentica; noi siamo importanti per lui; noi siamo coloro con i quali egli vuole condividere la sua stessa vita».

Nel commentare le letture liturgiche, il porporato ha invitato i malati presenti a impedire che i timori trovino terreno fertile nelle debolezze della malattia, sottolineando come spesso sia la fragilità «il principale ostacolo nella relazione con Dio e con gli altri». E ha offerto come modello proprio l’Immacolata, che con il suo “eccomi” ha avuto un ruolo insostituibile nella storia della salvezza e della Chiesa. Certo, qualcuno potrebbe obiettare che quell’“eccomi” al momento dell’annunciazione non fu pronunciato nel tempo della malattia, della sofferenza, della fragilità, della morte. Tuttavia, ha chiarito il cardinale Parolin, «in realtà non è così». Anzi l’evangelista Luca «è molto preciso quando dice che il dialogo dell’“eccomi” prende forma nel mezzo di molteplici esperienze problematiche».

La prima — ha spiegato il legato pontificio — «riguarda la famiglia, della quale la giovane Maria entrerà a far parte: la famiglia reale» ma anche quella «che ha portato Israele alla divisione e alla rovina per avere scelto gli idoli al posto del vero Dio». Insomma «la famiglia in cui non risuona il reciproco “eccomi” che ha guidato la vita del re Davide», quella «che ha portato Israele a scomparire dalla carta geografica». Ed entrando nella casa di Davide, la sposa di Giuseppe si spoglia di sé: «È chiamata a lasciare tutto per fare le esperienze della povertà e dell’esclusione che la storia riserva a quanti, in un modo o nell’altro e per i motivi più svariati, si sono persi» venendo privati al tempo stesso della stima, dell’apprezzamento e della benevolenza della comunità di appartenenza. Da qui le domande del cardinale Parolin che sono un invito a riflettere: «Non è questa la stessa esperienza che abbiamo fatto al momento della malattia, della sofferenza, della fragilità, della morte? Vivendo questi momenti non ci si ritrova improvvisamente spogliati, privati delle abitudini quotidiane? Quanti si sono sentiti in uno stato di povertà radicale, abitato più dal buio che dalla luce? Quanti hanno avvertito improvvisamente di essere diventati un peso per se stessi e per gli altri? Quanti si sono sentiti o sono stati trasformati in oggetti, numeri, protocolli?».

Un secondo spunto per l’omelia è venuto poi dal fatto che l’evangelista ricorda come l’“eccomi” di Maria venga pronunciato «non a Gerusalemme, il centro della vita e della fede di Israele, ma alla sua periferia»: a Nazareth, nella “Galilea delle genti”, un territorio «che è sinonimo di morte» per il solo fatto che è considerato “lontano”: lontano da quanto conferisce identità e da quanto garantisce sicurezza, lontano dal tempio che era il cuore della speranza religiosa. E questa “lontananza” — ha evidenziato il cardinale Parolin — ha molto in comune con «il tempo della malattia, della sofferenza, della fragilità, della morte. Tutti questi momenti, infatti, sono tempi di diverse “lontananze”». Da qui l’invito del celebrante ai presenti: «Se oggi, qui e ora, la madre Immacolata ci spinge ad accogliere, a desiderare, a cercare e a costruire il dialogo dell’“eccomi”, il dialogo che rende credenti, ella lo fa non come una privilegiata ma come una povera, che sa bene cosa vuol dire tutto ciò che ruota attorno al tempo della sofferenza e della fragilità perché lo ha vissuto prima».

Del resto, ha continuato, «Cristo apre la porta della gioia, dell’amore a tutti, indipendentemente dalla lingua, dal popolo, dalla cultura, dal colore della pelle». E di conseguenza il tempo della malattia e della morte va affrontato insieme «con lui come “viventi”, come egli stesso era “vivente” nell’ora della croce».

La sera precedente, venerdì 10, il legato pontificio aveva salutato i partecipanti alla tradizionale processione aux flambeaux che precede la celebrazione principale. Davanti alla grotta di Massabielle, il cardinale Parolin ha parlato della fragilità. «In tempi — ha detto — in cui l’autonomia, direi l’autosufficienza, è esaltata come un valore assoluto, tutti abbiamo bisogno di ripensare l’essere umano per scoprire come una delle sue caratteristiche intrinseche è la dipendenza, la non autosufficienza. La persona umana, in ogni fase della sua esistenza, è consapevole dei propri limiti fisici, caratteriali, spirituali, dell’incapacità di bastare a sé stessi, del bisogno costante dell’altro». E «la malattia, quando si verifica, chiarisce tutto questo come forse nessun’altra esperienza». Ciò porta l’essere umano a vivere in modo «inequivocabile l’interruzione di alcune relazioni, la solitudine, la perdita di alcune libertà e opportunità. Ma — ha concluso — la fragilità e i limiti non distruggono la dignità altissima e intrinseca di ogni essere umano».

Fonte: L’Osservatore Romano

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