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“Lourdes” di Andrea Cosentino. Miracolati e offesi

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La rassegna teatrale Scena Contemporanea continua con “Lourdes”, spettacolo di Andrea Cosentino e Luca Ricci tratto dall’omonimo romanzo d’esordio di Rosa Matteucci, coprodotto dalla compagnia aretina CapoTrave e Kilowatt.

La recensione di ravennanotizie.it

Andrea Cosentino entra in scena in mutande e sale su una struttura rialzata, che si erge a sinistra del palcoscenico. Si siede su una panchina di legno, che potrebbe ricordare quella di uno spogliatoio, unisce le ginocchia in posa femminea e comincia a recitare qualche preghiera a mezza voce, con un forte accento umbro.

Si tratta di Maria Angulema, protagonista del romanzo d’esordio dell’autrice orvietana Rosa Matteucci, che ha deciso di intraprendere un lungo viaggio in treno verso Lourdes come volontaria dama di carità per chiedere alla Madonna spiegazioni sulla morte improvvisa del padre.

Nel flusso di coscienza, frammisto di preghiere interrotte e parole dialettali smozzicate, si intuisce subito che la cronologia della fabula non coincide con l’intreccio: stiamo infatti assistendo alla fine di questo pellegrinaggio. Maria sta aspettando, svestita, di entrare nelle piscine sacre di Lourdes – luogo in cui si è ritrovata per caso, come scopriremo più avanti. Maria sbuffa, pensa alla sporcizia delle piscine, ha freddo: torna con la mente a quando, da piccola, i suoi genitori ridotti in povertà la portavano al mare.

La figura del padre che mangia un panino con la frittata sulla spiaggia: ed ecco che il meccanismo della memoria devia l’ordine naturale del racconto. Maria si riveste e ripercorre la tragica morte del padre, la decisione del pellegrinaggio, la descrizione dell’improbabile viaggio in treno e l’arrivo a Lourdes, in un unico, lungo flashback che sarà lo spettacolo stesso. Ritroveremo la nuda Maria in attesa del bagno salvifico solo alla fine della storia.

Storia che viene schizzata con bravura dall’eloquio balbettante e nervoso di Cosentino. Lourdes è un racconto fatto di macchie di colore, di particolari bruti e iperrealistici, di quadri grezzi e sbilenchi come il dialetto umbro, usato per dare voce a personaggi altrettanto deformi e tragicamente comici. Il testo dello spettacolo deve molto alla drammatizzazione di Cosentino e all’adattamento di Ricci, che cercano in tutti i modi di rendere comico un linguaggio che, per certi versi, si presta alla risata, basato com’è sull’accumulo esponenziale e spietato di aggettivi e avverbi.

Tuttavia, s’intuisce da certe caratteristiche che la mano è quella femminile della Matteucci. Il soffermarsi, ad esempio, su certi particolari orridi e scabrosi, l’ossessione igienista per gli umori corporei di ogni tipo, la misoginia efficace e crudele proprio perché alleggerita da quella sotterranea attrazione sempre latente nell’universo maschile: tutti questi sono tratti che, inequivocabilmente, portano la firma di una donna.

Impossibile, per un uomo, tratteggiare con miglior cura e spietatezza psicologica il momento meglio riuscito dello spettacolo, quello dell’invaghimento di Maria per Gonzalo Gòmez y Morena. L’esotico baralliere spagnolo diventa oggetto dei più improbabili vaneggiamenti muliebri, e il linguaggio per un momento abbandona la sua crudezza per farsi poetico. Ma poetico in un modo melenso e perciò irresistibilmente comico, contenitore dei luoghi comuni più triti: gli occhi “sono laghi profondi”, il mento “dolce e virile”, lo sguardo “si perde lontano nel paesaggio”, mentre la giovane Maria cerca disperatamente un contatto fisico col ginocchio dello spagnolo, seduto accento lei sul torpedone per Lourdes. Qui, sia il testo che l’attore danno il loro meglio, strappando grandi e crudeli risate.

Allo stesso modo, la caratterizzazione di alcune figure femminili, nella loro animalità e stupidità, sembrano quasi portare la firma di un occhio clinico e avvezzo ai cinismi, come potrebbe essere quello di un’infermiera esperta e sbrigativa: l’immagine dell’elastico delle mutande che s’incastra tra le chiappe della diabetica Micchelina mentre cerca di espletare il bisogno, “quello grosso”, chiedendo l’aiuto di “signorì”, ovvero della tapina Maria, convince invece di schifare proprio perché non cela nessuna empatia ipocrita.

Lo spettacolo procede bene, almeno fino ai tre quarti. Poi, al momento dello scioglimento, il meccanismo narrativo s’inceppa, borbotta, e fracassa terribilmente a terra. Difficile dire se la causa sia di Cosentino o del testo stesso; personalmente propendo per la seconda ipotesi.

Ritorniamo quindi sulla panchina di Maria, in attesa della santa abluzione. Fino a un secondo prima dell’immersione, eccola lì, schifata, sola, addirittura incapace di pregare perché distratta dai troppi monaci irlandesi vocianti e festevoli. La punta del piede sfiora l’acqua, e tac!, ecco l’illuminazione entrare prepotentemente nello spettacolo, spazzando via come un’immensa scopa quel cosmo squallido al quale, in fondo, c’eravamo anche affezionati: quello abitato di disgraziati e “stroppi”, di ritardati e deformi, di preti che sembrano albergatori e viceversa.

Una luce improvvisa e fortissima, che scaccia ogni ombra dal testo, ogni dolore dal mondo, ogni scandaloso desiderio di rivalsa da Maria, che è andata a Lourdes, non dimentichiamo, per litigarci con Dio, per accusarlo e bestemmiarlo, come Giobbe. Un’agnizione che sa di autentico e letterale deus ex machina: evidentemente Nostra Signora di Lourdes fa davvero i miracoli. Maria chiuderà lo spettacolo “chiedendo perdono a Dio per avere osato misurare il disegno divino col metro della sua presuntuosa ignoranza”.

Soli Deo gloria, d’accordo. Ma il punto è che, abbandonando lo scandalo per la Provvidenza, ogni dramma è impossibile, poiché conciliato e comprensibile. Questo stesso stridore, in un qualche modo, si ritrova anche nella scelta del contrappunto musicale. L’esecuzione dal vivo di Danila Massimi, eterea e delicata, è sembrata stonare con gli scoppi volgari di Cosentino, e interviene in scena come la scheggia preziosa di un corpo estraneo – o forse come metafora intempestiva dell’illuminazione redentrice.

Un finale che stona, dunque, e molto. Sembra averlo avvertito anche il pubblico del Rasi, che ha cominciato ad applaudire con qualche secondo di ritardo, perplesso o forse in attesa dell’ultima boutade profana che stemperasse la pesantezza del sacro.

Visto il 15 gennaio al Teatro Rasi, Ravenna
Jacopo Gardelli per ravennanotizie.it

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