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Lourdes: quello che non t’aspetti

Nella mia  breve ma intensa esperienza accumulata in questi pochi anni di servizio a Lourdes, ho vissuto momenti di straordinaria intensità.

Grazie a Dio non conosco le parole per poterli descrivere.

C’è un comune denominatore che li contraddistingue e che potrebbe essere sintetizzato con queste parole: Quello che non ti aspetti.

Ogni anno a Lourdes c’è qualcosa che ti raggiunge nel profondo nel momento più inaspettato.

Quest’anno mi è stato assegnato il servizio alle piscine. Avevo già avuto modo indirettamente di sperimentare l’atmosfera che si respira al loro interno.

Arriviamo a Lourdes nel primo pomeriggio,il mattino seguente avrei dovuto iniziare il mio servizio. Ero molto emozionato al pensiero di poter trascorrere così tanto tempo nelle piscine dove in quelle poche circostanze che me lo hanno consentito,ho visto consumarsi momenti di preghiera che mi accompagneranno per tutta la vita.

Penso che Lourdes sia uno dei luoghi che simboleggiano in assoluto come lo straordinario si coniughi con l’ordinario. Lo straordinario: l’apparizione, il divino, irrompe nell’ordinarietà di una vita semplice come quella di Bernadette.

Questo tema di fondo,anche se ovviamente su scala ridotta, è ciò che ha accompagnato durante questi anni il mio servizio a Lourdes.

Pensavo che la parte più intensa della mia esperienza di quest’anno l’avrei vissuta il giorno dopo il mio arrivo,cioè appunto nelle piscine,che in qualche modo rappresentavano lo “straordinario” del mio  pellegrinaggio. Ed è stato cosi per molti aspetti.

Ma ciò che sicuramente non mi aspettavo era di vivere ciò che sarebbe stato il centro motore dei miei spunti di riflessione nei giorni a venire, proprio quella stessa sera del nostro arrivo, durante un “ordinario” raduno di accoglienza per l’isola masci.

La stanchezza del viaggio aveva preso il sopravvento ed ero lì lì per addormentarmi, quando sono stato destato dall’intervento di uno scout che non avevo mai visto prima e che  pensavo essere un magister  di una comunità del nord, salvo scoprire più tardi che si trattava di un sacerdote. Poco prima ci aveva fatto fare un gioco in cui ognuno di noi doveva scrivere su un bigliettino una qualità che si riconosceva, attacarlo sulla propria fronte ed andare a vedere l’analogo bigliettino degli atri così che ognuno potesse rendere accessibile all’altro una parte di sé che altrimenti non sarebbe stata visibile di primo acchito,dato che molti di noi si vedevano per la prima volta.

Nel suo intervento,”smontava” alcune testimonianze fatte poco prima sul significato del servizio a Lourdes.

Le smontava non nel merito ovviamente, ma nel senso che si poneva in un’altra ottica. Vedeva il servizio non tanto come un atto da compiere verso il “bisognoso”, (lo straordinario rispetto alla vita di ogni giorno), ma piuttosto come uno stile di vita da tenere verso il più “prossimo” a te.

Il più vicino a te nell’ordinario, nel quotidiano che può anche essere la persona con cui vai meno d’accordo.

“…non ha senso prestare servizio all’ammalato quando poi guardo in cagnesco quello che sta prestando servizio con me”.

Queste parole mi hanno fatto percorrere in un istante svariati episodi in cui mi sono trovato a vivere in questi anni direttamente o indirettamente questa triste contraddizione.

Al tempo stesso mi hanno messo davanti ad un senso di responsabilità, e cioè alla consapevolezza che essere un foulard bianco non vuol dire solo assumersi l’onere di adempiere ad una promessa, ma piuttosto la responsabilità di uno stile di vita nuovo.

Il mattino seguente inizio il mio servizio alle piscine.

Dal primo all’ultimo giorno è stato un momento di preghiera straordinario, un approccio segnatamente spirituale nelle istruzioni

che i capi piscina ed i responsabili ci hanno dato sul sevizio che avremmo dovuto compiere.

E’ stata un’esperienza “straordinaria” eppure il più grande dono di questo mio pellegrinaggio, l’ho ricevuto da un semplicissimo rimprovero.

Il secondo giorno, ricevo un ammonimento, secondo me ed anche a detta dei più anziani, senza alcun motivo.

L’assenso dei più anziani ha lenito il fastidio che inizialmente ho provato, ma subito dopo ho ripensato a ciò che avevo ascoltato la prima sera durante il raduno d’accoglienza.

Ecco, ho detto tra me e me, ci risiamo, sempre pronti ad ostentare umiltà ed al tempo stesso asserragliati sul “..tu non sai chi sono io”. Stavo assumendo quel ruolo da cui tanto prontamente avevo preso le distanze e stavo per cadere in quella contraddizione che avevo giudicato con tanto distacco. Allora mi sono detto che anche se non ne comprendevo la ragione, ci doveva pur essere un senso in quel rimprovero. Mi sono ricordato del gioco fatto la prima sera al transit; la qualità che avevo scelto per me e che avevo scritto sul mio bigliettino, era: ASCOLTARE.

Mi sono chiesto cosa volesse dire ascoltare; sicuramente essere disponibili ad accogliere le vicissitudini dell’altro, ma può voler dire anche di più. L’ascolto può avere una dimensione più ampia, può essere una finestra aperta su ciò che non si comprende. Ma non si può ascoltare quando l’orgoglio prende il sopravvento, quando la supponenza prevale sulla disponibilità ad imparare anche dalla persona che apparentemente è la più distante da te. Si ricade nelle solite dinamiche pseudocompetitive, che alla fine hanno come risultato quello di vedere in azione sempre pochi discepoli e molti maestri.

Questo pensiero mi ha rasserenato molto; non sono riuscito a trovare una spiegazione a quella domanda, ma non l’ho neanche cercata più di tanto.

L’ultimo giorno, quando ormai non ci pensavo più, ho ricevuto il dono più bello che mi avrebbe dato tanta consolazione e che indirettamente era nato proprio da quel rimprovero.

Mentre ero in servizio mi sono osservato attorno ed ho pensato a come erano fatte le piscine: c’è una parte esterna che tutti possono vedere, immediatamente all’interno, c’è un primo ambiente di attesa, un corridoio,  in cui solo un certo numero di persone può stare, quindi questa prima parte interna delle piscine può essere vista da un numero di persone molto minore rispetto a quanti possono vedere la parte esterna, che è praticamente accessibile a tutti. Poi  c’è un secondo ambiente più interno che è separato dal corridoio da una tenda: una sorta di anticamera dove i pellegrini e gli ammalati vengono accolti e preparati. Questo ambiente può essere visto da un numero limitatissimo di persone.

Poi  c’è un ultimo stadio, separato dal precedente da un’altra tenda, in cui può entrare una sola persona alla volta, nessun’altro può vedere ciò che accade in quest’ultimo spazio.

D’un tratto ho pensato che le piscine erano fatte proprio come il cuore di un uomo. C’è una parte superficiale che tutti possono vedere; poi c’è una parte un po’ più interiore che è accessibile ad una ristretta cerchia di persone:conoscenti o amici. Poi c’è una parte più profonda riservata a pochissimi intimi.

Ma c’è un luogo nel cuore di ogni uomo dove solo Dio ti può incontrare, che solo Dio può scrutare e che a nessun altro è dato di vedere.

Noi non stavamo portando delle persone dentro una vasca, ma le stavamo accompagnando in un’esperienza, un incontro unico ed irripetibile per chiunque. Un momento in cui la persona sarebbe stata da sola davanti a Dio, a cui solo è dato di poter scrutare la parte più intima di ciascuno di noi.

Dario

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