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INGRID dei miracoli

L’ex-ostaggio franco-colombiano delle Farc, liberato dopo sei anni di penosa prigionia nella selva da una mirabolante operazione militare ordinata dal presidente Uribe, rischia di diventare, suo malgrado, un’icona. E una chiave di lettura troppo facile e sbagliata (i Buoni contro i Cattivi) di un conflitto complesso come quello della Colombia

QUASI UNA VISITA DI STATO PER BETANCOURT CHE ARRIVA OGGI IN ITALIA

Guido Piccoli

Sei anni nella selva a invocare la Madonna e a leggere la Bibbia, l’unica pubblicazione consentita dal rigore guerrigliero. Poi, a luglio, la liberazione, lo sbarco in terra europea, i festeggiamenti con Sarkozy e la Legion d’Oro, la visita a Lourdes. Domattina l’udienza con Benedetto XVI a Castel Gandolfo e il pomeriggio una preghiera in San Pietro. Così Ingrid Betancourt conclude il suo pellegrinaggio di ringraziamento per l’Operazione Scacco nella selva del Guaviare che, per come è stata raccontata, appare un miracolo da ascrivere, come sostenne allora anche il presidente Alvaro Uribe, «all’intervento dello Spirito Santo e alla protezione di nostro Signore e della Vergine, in tutte le sue espressioni».
Domani, martedì e mercoledì, prima a Roma e poi a Firenze, ci sarà anche spazio per i riti civili: conferenze, incontri, altre chiavi di varie città, il Giglio d’Oro. Questa sera invece cena con Walter Veltroni, che prese a cuore la sua tragedia quasi più degli stessi francesi. In Campidoglio Ingrid abbraccerà il suo successore neo-fascista Gianni Alemanno (nessun problema, in Colombia ha abbracciato di peggio). E poi di corsa, tra gli altri, da Napolitano, Frattini e Fini, fresco di una marachella marina nell’isola di Giannutri: un delitto per gli ecologisti, ma l’ex leader di Oxigeno Verde nemmeno ne sarà informata. In un paio d’occasioni sarà accompagnata da giornalisti fuori dal coro, come Gianni Minà e Maurizio Chierici, che non solo hanno ben presente cosa succede in Colombia ma anche ben integra l’onestà intellettuale per evitare che il passaggio in Italia della Betancourt si trasformi in uno show di bagattelle sui film in lavorazione a Hollywood o di gossip sulla sua incerta vita sentimentale (come hanno già anticipato alcuni giornali).
Ma soprattutto che non si deformi la realtà della Macondo latino-americana. Il rischio c’è. Se le luci della ribalta fossero solo su di lei e il suo dramma, come vorrebbe l’informazione-spettacolo, la Colombia apparirebbe un campo di battaglia tra Bene e Male, buoni e cattivi. Dove la «buona» per eccellenza, meritevole di ogni onorificenza fino al Nobel della pace, sarebbe lei, vittima di un crimine ingiustificabile che le ha portato via sei anni di vita. E su questo non ci piove. E poi, certo, anche gli altri sequestrati e prigionieri di guerra, di cui però a nessuno è mai importato niente, non essendo mezzo francesi e nemmeno ricchi, famosi e colti. E buoni sarebbero anche gli «agenti del miracolo»: Uribe, il generale Mario Montoya e l’esercito colombiano.
E il Male, i cattivi sarebbero i loro nemici. Le Farc innanzi tutto, ladri di sei anni della vita di Ingrid, carcerieri anche un po’ polli che si sono fatti fregare il loro più prezioso bottino umano, sotto il naso e a quel modo. E anche su questo non ci piove. Ma anche i loro amici, veri o presunti, come i presidenti del Venezuela e dell’Ecuador, Hugo Chávez e Rafael Correa, che si sono spesi per una trattativa che avrebbe liberato, oltre a Ingrid, altre centinaia di sequestrati e prigionieri di guerra, rappresentando un segnale di pace in un paese da quasi mezzo secolo in guerra. E poi anche la deputata liberale Piedad Córdoba che adesso rischia la galera per aver fatto da mediatrice, su richiesta dello stesso Uribe. Ma soprattutto per apparire, insieme con Chávez e Correa e molti altri, negli onnicomprensivi computer recuperati incolumi (altro miracolo) accanto al cadavere del numero due delle Farc, Raúl Reyes, bruciato dai missili nel suo accampamento di fortuna della selva ecuadoriana il primo marzo. Guarda caso, proprio quando stava definendo, con degli emissari francesi, gli ultimi dettagli della liberazione di Ingrid.
Se è inevitabile che le sceneggiature dei film in lavorazione a Hollywood necessitino di semplificazioni e ritocchi, la realtà dovrebbe essere descritta per quella che è. E così anche i protagonisti della vicenda.
Cominciamo dai buoni. Da Ingrid, alla quale va tutta la stima e la solidarietà per quanto ha sofferto, e la comprensione per ciò che ha detto o fatto, anche quando era sotto effetto del «nirvana» della liberazione (parole sue). Sarebbe da stupidi rimproverarle alcuni abbracci e affermazioni, ma va ricordato che il «grande e buon presidente» che l’ha liberata è colui che, a costo della sua incolumità, ha frustrato consapevolmente, durante i suoi anni di prigionia, ogni tentativo precedente pur di non intavolare una trattativa con chi la deteneva.
Nella lettera alla madre Yolanda, che nel novembre scorso commosse il mondo e nella quale si augurava che un giorno i colombiani diventassero «meno individualisti e indifferenti e più solidali», Ingrid nominò e ringraziò un centinaio di persone, ma non spese una sola parola per Uribe. Allora era forse d’accordo con la madre che arrivò a chiedersi se Uribe «avesse un cuore» e perfino a confessare di essersi opposta a che Melanie e Lorenzo, i figli di Ingrid, vivessero in Colombia «per timore che lui, il suo esercito e i suoi paramilitari li perseguitassero». I sentimenti possono cambiare, ma rimane il fatto che la rielezione di Uribe, per Ingrid «molto positiva», è stata resa possibile dal sostegno elettorale di boss narco-paramilitari e da una compravendita di voti che ha provocato uno scandalo.
Passiamo al generale Mario Montoya. Se avesse conosciuto il suo curriculum, la Betancourt l’avrebbe abbracciato un po’ meno caldamente. Secondo vari documenti dell’ambasciata Usa a Bogotà, del dipartimento di Stato, della Cia e le confessioni di alcuni paramilitari (l’ultima, una ventina di giorni fa, di «Diomedes» del Bloque Mineros delle Auc), dov’è passato Montoya da trent’anni a questa parte, sono cresciuti squadroni della morte e fosse comuni.
Passiamo ai cattivi. E’ indubbio che le Farc detengano quasi il monopolio di un delitto spregevole come il sequestro di civili, per fini politici o estorsivi poco importa (cosa diversa è catturare nemici in battaglia). Ed è quello che è toccato a Ingrid. Ma non è né l’unico, né il più grave nella barbarie colombiana: è solo il crimine che colpisce preferibilmente i ricchi. Per questo è sembrato stonato quel suo proclamarsi «soldato contro le Farc», nel giorno della sua liberazione all’aeroporto del Catam, con indosso la stessa tuta mimetica di quei reparti di contro-guerriglia che, con la scusa di «togliere l’acqua al pesce», si macchiano da decenni di episodi orribili contro i civili, compresi donne e bambini. Tra i cattivi ci sono anche coloro che sono considerati i nemici, interni ed esterni, di Uribe. Tra questi, i principali sono Chávez e la Córdoba. Nella famosa lettera alla madre, Ingrid esprimeva per loro «affetto e ammirazione», confessando quanto apprezzasse la generosità del presidente venezuelano e ringraziandolo «per interessarsi alla nostra causa, poco attraente, perché il dolore altrui, quando diventa una statistica, non interessa a nessuno». A liberazione avvenuta, secondo i giornali colombiani, l’unica dichiarazione rivolta a Chávez e anche a Correa è stata l’invito di «no meterse», non immischiarsi con la democrazia colombiana. Alcuni hanno parlato di ingratitudine. Altri di tradimento. Cosa pensi davvero ora Ingrid non è dato sapere.
Dai caotici e straordinari primi giorni di libertà Bogotà, si è allontanata dal suo paese. Ne aveva sicuramente bisogno. A quanto pare, ha rifiutato un invito di César Gaviria, l’ex presidente liberale a candidarsi alle prossime elezioni presidenziali. C’è chi giura finirà a Parigi, in sede Unesco, o a New York, nel Palazzo di vetro. Se decidesse così, la si capirebbe. Ma la Colombia rimarrebbe ancora più sola e dimenticata. La democrazia» colombiana ha bisogno di gente come Ingrid. Con lo stesso spirito di chi ha lottato prima contro corruzione e perbenismo e poi resistito all’annichilimento nella selva. Ma senza tuta mimetica.

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